Il puzzo della verità: Ninfa plebea incanta e ferisce al Campania teatro Festival. Recensione

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Il puzzo della verità: Ninfa plebea incanta e ferisce al Campania teatro Festival. Recensione

Miluzza. Miluzza. Miluzza”. Tre volte basta per evocare il dolore, la crescita, l’anima scorticata di una figura diventata archetipo. 
Ninfa plebeaFavola in musica, andato in scena il 10 luglio 2025 alla Sala Assoli, per il Campania Teatro Festival, sotto la sapiente regia di Rosalba Di Girolamo, che ha curato anche l’adattamento del romanzo, Premio Strega 1993, da cui è tratto liberamente lo spettacolo, con la consulenza drammaturgica di Lucia Rea, figlia dello scrittore Domenico Rea. Il testo a lungo frainteso per il suo tono “scabroso”, qui mostra la sua vera natura: non è pornografia, è politica della carne. 
È un’opera cruda, lucidamente sociale, che parla del costante abuso subito dalle donne, in particolare quelle giovanissime, nell’indifferenza di un mondo che si volta dall’altra parte. Lo spettacolo lo grida con forza, pur conservando un tono lirico. Non porta semplicemente un testo in scena: lo implode. Non è una messinscena, ma una possessione. Si assiste a un rito narrativo, un cunto visionario sospeso tra parola, corpo e musica. Miluzza diventa fiaba e carne, favola antica e contemporanea, scritta con l’inchiostro della plebe e la luce del mito.
La regista Di Girolamo lo dice chiaramente: «Ninfa plebea è un romanzo sulla purezza, ma anche sull’abuso. Entrambi i temi sono nascosti tra le pieghe di un linguaggio crudo e visionario, scuro e coloratissimo, mai consolante. Con i miei colleghi abbiamo voluto creare una narrazione per quadri musicali e cromatici, che evocano più che descrivere. Un linguaggio teatrale capace di affrontare il dolore con leggerezza e crudezza allo stesso tempo».
Qui non si recita, si sputa. La lingua viva, incandescente, sgrammaticata e violenta è la vera protagonista. Una lingua “analitica fino allo scabroso”, come direbbe lo stesso Rea. Una lingua che la regista ha rispettato e amplificato, e che s’infila tra le gambe, nelle latrine, tra le lenzuola.
Ritroviamo Basile, maestro riconosciuto da Rea, il suo auctor princeps. Il Cunto de li cunti non è solo un riferimento stilistico: è una vera matrice genetica. Rea ha dichiarato che la lingua di Basile è l’unica capace di svolgere una vera indagine antropologica sulla plebe secentesca, una plebe che, per Rea, è rimasta intatta nel tempo. In Miluzza c’è il seme delle fate contadine di Basile, nella voce che narra, il ritmo barocco, bizzarro, pieno di metafore da favola carnale.
Basta una frase per comprendere tutto: «E tanto mi ero familiarizzata col puzzo lasciato dagli altri e da me stessa che avevo finito per identificare il puzzo come l'espressione stessa del mio corpo».
Non c’è metafora più vera di questa: Miluzza è un’adolescente che scopre sé stessa attraverso l’odore del mondo che la circonda e la invade. È il corpo che parla, senza filtro. E il nonno, personaggio tragico e mitico, le insegna che: «Bisogna accettare di puzzare, Miluzzella, se no la gente poi se ne va di capa e si ricorda di essere animale». 
Questo è teatro antropologico. Teatro che scava nella fognatura dell’esistenza e ci costringe a restare lì, a guardare, ad ascoltare. Miluzza subisce. Subisce il desiderio degli altri, la fame di potere e di carne che la trasforma in una principessa violata. E quando l’abuso si consuma, da quell’orco che può avere mille volti, il prete, l’uomo rispettabile, l’amico, arriva la frase agghiacciante, normalizzata, pronunciata con la stessa dolcezza con cui si regala un confetto: «...che manelle fresche ca’ tiene, Minuzzè, si nu fiato ‘e ddio. ‘O vuò, ‘e pigliatillo! È d'argiento. E mò vattenne e nun dicere niente a mammate si no chella chi ‘o sa che se penza».


È questa la frase più devastante. La violenza più spaventosa, normalizzata. L’orrore trasformato in carezza, travestito da dono. Lo spettacolo non ha bisogno di urlare, ma sussurra una verità viscida, subdola, che striscia negli stomaci degli spettatori a ogni violenza reiterata. La mano dell’orco marchia l’esistenza di Miluzzella e, inevitabilmente, quella degli spettatori, come un’ustione. Lo stupro è paradigmatico: l’orco violenta, poi regala. Una catenina, un bracciale, un vestito. E poi: “vattenne”. E soprattutto: “nun dicere niente a mammate”! 
La violenza che attraversa lo spettacolo non ha bisogno di clamore. È fatta di silenzi, di gesti striscianti, di una quotidianità che si piega senza spezzarsi. Miluzza non grida, e neanche il teatro lo fa. Ma è proprio questa scelta di sottrazione a rendere il racconto insostenibile. Perché la ferita che non si mostra, quella che si mimetizza tra le pieghe del quotidiano, è forse la più profonda. Questo teatro non grida. Bisbiglia. E nel farlo, penetra più a fondo, lasciando ferite che bruciano in silenzio.
La scena è attraversata da cinque figure: la Miluzza narratrice, Rosalba Di Girolamo, di straordinaria sensibilità. La Miluzza cantante, vissuta attraverso la voce intensa di Annalisa Madonna. La Miluzza corpo, la giovane e magnetica Luna Fusco. Il Nonno, uno splendido Antonello Cossia. Infine, l’agglutinante presenza scenica della musica dal vivo del grande Jennà Romano, che pulsa come un cuore arrabbiato. Cinque elementi come gli organi vitali del racconto. O come le dita di una mano che stringe, accarezza, ma può anche soffocare.
La regia procede per quadri emotivi e cromatici, oscillando tra il comico e l’allucinato, il sacro e il pornografico. La lingua oscilla tra dialetto e invocazione. C’è il pianto, c’è la danza, le preghiere, le bestemmie.
Perché Ninfa plebea, come dice Lucia Rea, non è un romanzo erotico, ma un testamento spirituale e antropologico. Una denuncia politica del patriarcato più subdolo: quello che non si dice, che si nasconde dietro una carezza. Una denuncia dell’abuso sistemico sulle donne e sui corpi femminili. E lo spettacolo ne raccoglie l’eredità con rispetto e rabbia. Il tutto cucito con ago e filo da una regia che sa evocare senza spiegare.
Alla fine, Miluzza, cresce. Perde l’infanzia. Ma trova uno sguardo nuovo, uno spiraglio. Non è salvezza: è consapevolezza, costretta a rifiutare la favola facile dell’amore. Chiede di essere guardata per quella che è: una ragazza che ha fatto, davvero, un sacco di strada da sola. Ha attraversato l’inferno con le scarpette incantate della nonna: ma non è Dorothy, non è Cenerentola. 
Ma ecco che il Nonno, quasi una personificazione dell’invito sofocleo all’umana compassione, raccoglie l’ultima recondita speranza dell’animo di Miluzza, che seppur sembra ormai perduto, è pur sempre quello di una bambina: «Questa è una favola, vero? È solo una favola…e adesso scriviamo un altro finale». Questo è il gesto teatrale più rivoluzionario: riscrivere il finale. Rifiutare la dannazione. Rifiutare il silenzio. Dire che no, non è normale. Non è amore. Non è destino. Ninfa plebea – Favola in musica è un pugno di fango e miele nello stomaco. Teatro che puzza. E proprio per questo, profuma di verità.