Contro la narrazione preconfezionata: il cinema incendiario di Abel Ferrara. Intervista

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Contro la narrazione preconfezionata: il cinema incendiario di Abel Ferrara. Intervista

Al Social World Film Festival di Vico Equense, Abel Ferrara, regista newyorkese e icona del cinema indipendente mondiale, ha incontrato i giovani al Cinema Aequa per una masterclass intensa e appassionata, dopo la proiezione in anteprima italiana del suo ultimo lavoro, Turn in the Wound, già presentato alla Berlinale. L'opera è stata premiata come Film sociale dell’anno 2025. Un film che non spiega, ma attraversa. Che non racconta la guerra con l’oggettività del reportage, ma con la soggettività di una ferita aperta, viva. In questo ibrido documentario-performativo, Ferrara fonde interviste improvvisate sul fronte ucraino con immagini d’archivio, inserti audiovisivi di un live show di Patti Smith e il Soundwalk Collective, e riflessioni dissonanti, grezze, mai addomesticate. Il risultato è un film che non chiarisce, ma colpisce. Non spiega, ma brucia. Incontra, provoca, scuote.
Ha incontrato i giovani del Social durante la masterclass al festival. Che impressioni ha avuto?
«È stato fantastico. Ero molto emozionato dal film. È un film che abbiamo girato in Ucraina e che vede anche come protagonista Patti Smith. È molto bello trovarsi in una stanza con delle persone che hanno appena visto il tuo film e vedere subito come reagiscono e le loro risposte emotive. È stato molto bello vedere che i giovani non hanno paura di fare domande, vogliono sapere, vogliono conoscere. In situazioni come queste impariamo molto, non stiamo solo andando da un luogo all'altro».
In un'epoca di immagini spesso manipolate e anestetizzate, lei continua a scegliere la via della verità, anche quando è scomoda. Quale ruolo ha oggi il cinema nel raccontare la realtà? 
«È proprio lo scopo del fare film: cercare di arrivare alla realtà, di scoprirla. Nel mio percorso cerco di condividere con gli spettatori la mia visione. Non inizio con una premessa o con un pregiudizio, specialmente nei documentari, ma anche in tutti i miei film. Inizio con una direzione. In questo caso, andare in Ucraina, parlare con le persone, ascoltarle. Andare da Patti Smith e parlare con lei. Il bello del cinema, della telecamera, è che le persone hanno bisogno di raccontare la propria storia, di esprimere ciò che hanno nella mente. Tutti riescono a farlo. Sfortunatamente, in questo film parliamo di persone che stanno vivendo la guerra. Una donna, ad esempio, ha dovuto scegliere se restare con sua figlia morta sotto le macerie o salvare sua nipote. Incredibile».
Turn in the Wound è stato premiato come film sociale dell’anno 2025. Ma anche in opere come Il cattivo tenente o Fratelli emerge una forte dimensione sociale. Che cosa pensa del cinema sociale in senso più ampio?
«Ogni film è un film sociale. È un miracolo poter fare un film. Devi muovere molte persone, servono moltissimi soldi, moltissime opportunità, e devi dare tutto te stesso. Il cinema è importantissimo, è uno strumento potente. Lenin diceva che è il mezzo più importante per comunicare. Comunichi con le immagini, parli al mondo intero. Tutti nel mondo comprendono il linguaggio del cinema. Il cinema è una responsabilità, è un dono, è un'opportunità. Ma funziona solo se lo fai per le ragioni giuste. Se lo fai solo per soldi, non funziona».


Com’è nato il progetto e cosa l'ha spinta a raccontare in prima persona questo conflitto in Ucraina?
«Come potrei non farlo? Io sono un regista e vivo a Roma, che è così vicina. La madre dei miei figli viene dalla Moldavia. Siamo tutti così vicini. È una storia che riguarda tutti. Potrebbe essere la fine di quella parte del mondo, e addirittura di tutti noi. Il mio dono, il mio dovere, è raccontare queste cose. È la mia opportunità, è la mia responsabilità farlo. Ho amici che vivono in Ucraina: come potrei non farlo? Raccontare questa storia era la cosa più logica da fare».
Che lettura dà della situazione politica attuale?
«È un incubo. Possiamo definirla la terza guerra mondiale. L'essere umano sembra voler distruggere il pianeta e chi ci vive. I capi di stato, oggi, sono fuori controllo. Non c'è pace, solo cessate il fuoco. Ci avviciniamo all’amore, alla comprensione, solo con il cessate il fuoco. Questo non è normale, è davvero un incubo».
Come dovrebbe accostarsi lo spettatore al suo cinema?
«È importante mantenere la mente aperta. E non è facile. L'aspettativa è uguale al risentimento. Quando entrate in sala, respirate profondamente, cercate di guardare il film e lasciatevi trasportare completamente senza pregiudizi e aspettative. Se non vi prende, andate via. Quando guardo un film e non capisco quello che vuole dirmi, me ne vado e basta, potete andarvene, non dovete rimanere per forza, ma se restate, allora lasciatevi andare alle immagini e a tutto ciò che il film dica. Alcuni film mi hanno cambiato la vita solo perché mi sono immerso completamente nell'esperienza».
Quali film l’hanno segnata di più?
«La battaglia di Algeri, Il Corvo, Salò di Pasolini, The Shining di Kubrick. Ce ne sono tanti».
Quali sono state le difficoltà durante le riprese?
«Nessuna parte è stata difficile. Una volta che il governo ucraino mi ha garantito protezione, mentre stavamo andando, a Kiev in quel momento stavano combattendo la guerra, eravamo distanti come da Roma a Milano, quindi Kiev era un po’ meno pericolosa. Ma non c'è problema, perché è un'esperienza: andiamo lì, incontriamo la popolazione. Dobbiamo ascoltare le persone come noi per raccontare ciò che è accaduto. Sono stanco di Twitter, stanco di X, della CNN... stanco che ci venga imposta una narrazione preconfezionata. Non voglio sentire le cose dal telegiornale o leggerle sui giornali. Voglio andare, vedere. Questo film è stata un'opportunità per farlo. Come dicono i marines americani: non ci sono problemi, solo opportunità. Siamo in un momento in cui tutte le nostre vite sono in pericolo, colpite al cuore dalla follia di chi crede di poter governare il nostro popolo, la nostra gente. Che pensano di essere il presidente, di essere chissà chi».


Il film non è un reportage classico, ma un diario intimo. Qual è la ferita che voleva mostrare? Quella del mondo o la sua?
«Non volevo mostrare qualcosa in particolare. C'era la necessità di essere lì, dove l'incubo stava accadendo. Faccio film, soprattutto documentari. E guardate: siamo praticamente nella terza guerra mondiale. Se non ci siamo già dentro. Dobbiamo smetterla con le stronzate e andare al sodo».
Ha viaggiato molto nella sua vita...
«Sì, sono stato fortunato. Ho avuto l'opportunità di girare il mondo fin da piccolo. E ora che sono abbastanza vecchio posso dirlo: il 98% delle persone che ho incontrato sono brave persone. Persone che si preoccupano della propria famiglia, del lavoro, di come sopravvivere giorno dopo giorno. Quando guardo quello che succede in giro per il mondo a Teheran, a Gaza, mi sembra irreale, incredibile, assurdo. Questo non è quello che vogliono i lavoratori, la gente comune».
Nel documentario si percepisce urgenza, ma anche un certo abbandono all'imprevisto…
«Di tutti i film che ho girato, questo è quello che mi è più vicino di tutti. Stavo girando due documentari diversi. Uno su Patti Smith, molto legato ai poeti francesi del XIX secolo, che parte dalla sua esperienza, dal suo punto di vista. Patti Smith è una persona molto sensibile. Poi, contemporaneamente, andavo in Ucraina per girare qualcosa di completamente diverso. Quando stai girando un film, semplicemente ti fai trasportare e succedono diverse cose. Ma come dice Michael Jordan, un cestista americano, bisogna lasciare che il gioco venga verso di te. Quando fai un film devi lasciarti trasportare, lasciare che le cose accadano. É quello che è successo con questi due film. Volevo lasciare che qualsiasi cosa che stava succedendo, questa magia che stava succedendo, accadesse e basta. Senza cercare di impormi all'arte, senza cercare di arrivare con una struttura che è fissa».
C'è una critica implicita alla politica internazionale?
«Non dobbiamo per forza dire tutto, ma sappiamo che tanti leader politici vogliono solo portare avanti la propria idea di potere. Stiamo vivendo in un incubo. Gli abitanti dell'Ucraina ormai vivono in un incubo da 23 anni. Io vengo da New York. Quello che è successo alle Torri Gemelle succede oggi tre volte al giorno. Succede a Tel Aviv, a Teheran, a Gaza. Io vivo a Roma, ho discendenti italiani. E vivo con la mia famiglia a Roma, in un posto bellissimo. E sono molto contento di vivere una vita bellissima, ma la seconda guerra mondiale in Roma non è stata affatto bella. Nemmeno la prima. Dobbiamo stare molto attenti a quello che accade intorno a noi. Restare vigili. Come esser umani non ci meritiamo ciò che sta accadendo».