Lalla Esposito, la voce dell’anima napoletana, al Positano Teatro Festival con “Si te parlo me parlo…”

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Lalla Esposito, la voce dell’anima napoletana, al Positano Teatro Festival con “Si te parlo me parlo…”

Attrice intensa, ironica, duttile. Interprete raffinata, capace di attraversare parola e musica con una verità disarmante, Lalla Esposito è una delle voci più autentiche del nostro teatro. Con una carriera ricca di incontri memorabili, da Moscato a Patroni Griffi, da De Simone a Peppe Barra, ha saputo abitare ruoli e melodie con un equilibrio raro tra disciplina e vertigine.
Sabato 26 luglio presenterà alla XXII edizione del Positano Teatro Festival – Premio Annibale Ruccello, lo spettacolo “Si te parlo me parlo…”, un omaggio delicato e potente a Luca De Filippo, attraverso i versi di Eduardo e le musiche del maestro Antonio Sinagra. Accanto a lei, sul palco, Lello Giulivo, Michele Simonelli, con Ciro Cascino al pianoforte e Alessandro Tumolillo al violino.
Si te parlo me parlo…” è più di un concerto: è un atto d’amore condiviso, un rito laico in cui amicizia, memoria e poesia si fondono. È anche il ritorno, in forma nuova, di uno spettacolo nato con lo stesso Luca nel 1997, sotto il titolo Penziere mieje, oggi riproposto in una veste intima e acustica.
Abbiamo incontrato Lalla Esposito alla vigilia di questa nuova tappa. Ne è venuta fuori una conversazione profonda, viva, attraversata da pensieri sulla scena, sull’identità, sulla bellezza, sulla fragilità e sul mestiere dell’attore come “lavoro serio”, da onorare ogni volta come fosse la prima.
Presenterai un nuovo spettacolo al Positano Teatro Festival, “Si te parlo me parlo…”. Rendi omaggio a Luca De Filippo attraverso le parole di Eduardo…
«É un nuovo spettacolo ma riprende un altro che avevamo portato in scena nel ’97 proprio con Luca De Filippo, e si chiamava Penziere mieje. È uno spettacolo in cui queste poesie di Eduardo sono state musicate dal maestro Sinatra in una chiave, naturalmente, moderna. Ne facemmo anche un disco, e una registrazione televisiva per Palcoscenico. Ora lo riproponiamo in una forma ridotta: siamo noi tre cantanti, accompagnati da due musicisti, un violino e un pianoforte.»
Quando interpreti queste poesie cantate, cosa senti di star difendendo? La poesia? La lingua? L’anima di Napoli?
«Quando hai la fortuna di poter scegliere cosa fare e cosa no, e non è sempre scontato, è già un privilegio. Ho fatto sacrifici per difendere la qualità, e più difendi la bellezza, più diventa difficile incontrare il gusto del pubblico, che oggi si è un po’ imbastardito. Con Eduardo, canti versi nati come poesie: si apre un mondo, un poeta. Eduardo è trasversale, ha raccontato Napoli in modo non oleografico, rendendola europea. Ha dato dignità a una lingua e a un popolo.
Io sono un’attrice cantante, non solo una cantante: quando canto, do senso alle parole. La musica è un’arma per farle arrivare, ma il testo è fondamentale. Sempre».


“Si te parlo me parlo…” è anche una dichiarazione d’identità. Quando hai capito che parlare di Eduardo era anche parlare di te stessa? Hai scelto qualche brano?
«I brani ci furono assegnati. Tra quelli che canto, c’è Io vulesse truvà pace, un monumento poetico, e ’A matassa, a cui sono molto legata. Eduardo scrisse: “Quando io muoio, parleranno tanto di me, ci sarà chi la vuole cotta e chi la vuole cruda, vorranno sbrogliare questa matassa… ma io sono morto. Arrivederci, fatevi gli affari vostri.” Lui era molto riservato, e quella canzone mi parla anche di un tempo in cui non c’era l’inflazione dei social. Oggi si scrive di tutto, anche se uno si fa male a un ginocchio… ma che ce ne importa? Questa canzone è diventata per me ancora più importante quando Luca se n’è andato. Sua moglie Carolina mi chiese di cantarla al Teatro Argentina. All’inizio dissi di no, ero troppo sconvolta. Poi pensai: forse è l’ultimo modo per salutarlo. Ogni volta che cantavo quella canzone, Luca era lì alla mia destra, seduto. Ora è diventata ancora più importante per me».
C’è un gesto di Luca che hai fatto tuo in scena, magari senza accorgertene?
«Lavorando con qualcuno, si impara sempre qualcosa, anche solo a non fare come lui. Io ho avuto la fortuna di lavorare con grandi maestri: Patroni Griffi, Pugliese, Moscato, Servillo, Scaparro… e Luca. Da ognuno ho portato via un pezzettino. Da Luca ho imparato una cosa fondamentale: la professionalità. Puoi avere tutto il talento del mondo, ma se non hai rispetto per il mestiere, ogni dote si svuota. Luca veniva da un teatro dove esisteva il “capo comico”, figura oggi obsoleta ma allora centrale: disciplinava la compagnia e manteneva il rispetto, anche perché spesso ne era il produttore. Gli attori non sono sempre delle belle persone, sarà l’ego smisurato che ci portiamo dietro … Enzo Moscato, mi ricordo, mi diceva sempre con il suo solito distacco poetico: “Ma sai che è? Chille là ‘ncoppe ce vedeno comme ‘e divinità. Quanno scennimmo, nun ce vonno cchiù.” E questo racchiude tutto. Sai quante persone mi dicono: “Mi sembravi altissima!” E poi, nel sottotesto, invece: “Sei una nana!” Ma questa è anche la bellezza. A me piace avere una doppia vita. La vita della “nana”, sono fatti miei, a casa mia, coi gatti. Poi mi trasformo. Mi piace l’idea che sul palco succede qualcosa che non posso controllare, che sfugge… E quindi Luca, in questo, mi ha insegnato davvero la disciplina. Mi ha insegnato a rispettare il teatro, i colleghi, il lavoro. Perché è un lavoro condiviso, e il lavoro di tutti ci permette di andare avanti. Luca mi ha insegnato il rigore, la discrezione e anche la simpatia… quando era il caso di esserlo. Perché pure la simpatia, se usata male, può stonare».
Eduardo cercava la “pace”, Luca il rigore, Peppe Barra il gioco. Tu hai detto che vivi “senza tregua”. Come si regge un’identità artistica su questo filo sottile tra disciplina e vertigine?
«Considero ciò che faccio un lavoro, lo dico nel senso positivo e nobile della parola. Il lavoro per me è una cosa serissima. Molte volte l’artista si concede divagazioni, debolezze, giustificandosi con “vabbè, ma uno è un artista”. No: se tu consideri questa professione un lavoro, le dedicherai un impegno molto, molto più forte. E io, fondamentalmente, il “fuoco sacro” non ce l’ho mai avuto».
Hai detto di voler superare il provino con te stessa. A che punto sei con questo “casting interiore”? Ti bocci per difenderti dal riconoscimento che meriti?
«Sempre. Mi considero una nullità. Fammi cantare o recitare, ma non farmi rivedere quello che ho fatto, altrimenti smetto. Da ragazza, i complimenti mi spiazzavano: pensavo si stessero prendendo gioco di me. Ringraziavo e poi giravo lo sguardo col timore di vedere se ridevano, Col tempo ho imparato qualcosa, ma cerco sempre di alzare l’asticella. Non voglio essere incasellata in un tipo di teatro. Quando mi offrono qualcosa che sembra lontano da me, penso: “Forse, studiando, ci posso arrivare.” Anni fa, Federico Odling mi propose La Giaguara Suite, su Laura Betti. Non conoscevo neppure una sua canzone, era repertorio milanese. Ma la sfida mi affascinava. Dissi: “Lo voglio fare.” Poi viene la paura, certo. Ma… è bello provarci».


Hai lavorato con compositori come Piovani e Sinagra, e con drammaturghi come Moscato, Elvio Porta, Patroni Griffi. Qual è stata la sfida più grande?
«Ogni cosa è una sfida. Anche una serenata sotto un balcone la voglio fare bene. La più grande è stata Teresa Sorrentino di Elvio Porta, nel 2018. Un monologo da sola, dovevo interagire con personaggi invisibili, dialogando con il vuoto, calcolando tempi, risposte, contrasti emotivi.
Poco dopo l’inizio delle prove, morì mia madre, con cui vivevo. Fu un colpo durissimo. Armando Pugliese mi disse che sarebbe venuto ogni giorno in prova. Dopo cinque giorni volevo mollare. Ma entrando in teatro trovai tutta la scena montata per me dai tecnici: un omaggio al mio percorso. Armando accettò di lavorare gratuitamente, nonostante i suoi acciacchi. Davanti a questo, non potevo tirarmi indietro. È stata la sfida più grande della mia vita: la mia vita privata e il lavoro artistico si sono intrecciati in modo irreversibile».
Hai detto che la pace non la trovi mai, che vivi “senza pelle”. Nella tua carriera c’è stato un personaggio o uno spettacolo che ti ha concesso tregua, un momento di respiro? O chiedi sempre molto a te stessa?
«Io chiedo sempre molto, ma c’è stato un personaggio che mi ha dato tregua: la mia prima protagonista a teatro, Bernardina nel Masaniello. Armando Pugliese mi affidò quel ruolo in un contesto non canonico: piazze, pedane mobili, pubblico in piedi. Era un tipo di teatro molto diverso. Il testo, scritto sempre da Elvio Porta, era così ben costruito che mi permetteva di restare dentro la storia, affidarmi completamente. Quando la storia è vera, reale, ti senti trascinata dall’epoca, dai personaggi. In quel contesto mi sono sentita libera, mi ha fatto respirare».
Hai iniziato da giovanissima. Raccontaci quella scintilla iniziale…
«Decisi di fare questo mestiere a 13 anni. La prima volta che andai a teatro vidi La Gatta Cenerentola, fui così impressionata dalla sacralità dello spettacolo che mi venne la febbre al ritorno a casa. Pensai: “Io voglio fare questo”. E pur essendo molto riservata, taciturna, non lo dissi a nessuno. Ogni compleanno, dal mio tredicesimo al ventitreesimo anno, spegnevo le candeline e desideravo lavorare con Roberto De Simone. Dieci anni dopo, a 23 anni, lo incontrai e lavorai con lui. Il mio primo spettacolo fu con Ugo Gregoretti, il secondo con Toni Servillo e il terzo con De Simone. Potevo anche ritirarmi…».
Cosa hai fatto con De Simone?
«Ho interpretato Le 99 disgrazie di Pulcinella e La Cantata per Masaniello con gli Inti Illimani, un incontro straordinario».
Se si rifacesse La Gatta Cenerentola, chi vorresti interpretare?
«Ci sono due personaggi femminili meravigliosi: Cenerentola e la lavandaia (quella interpretata da Isa Danieli). Da ragazzina sognavo Cenerentola, anche perché in un certo senso mi ci sentivo affine. Tutte noi, la sera, sogniamo il ballo, perdiamo una scarpa… e, invece, restiamo a casa».
Cosa ti commuove ancora oggi da spettatrice? Hai mai pianto davanti a un’opera teatrale o un film recente?
«Sempre, sempre. Mi commuovo facilmente davanti alla bellezza, alla dolcezza, cose che spesso mancano. Per esempio, ho visto un documentario di Tornatore su Ennio Morricone: quel genio che si commuove parlando della moglie, o delle parole gentili ricevute da chi non era al suo livello, e piange. Ero commossa. Quando un essere umano in scena o nel racconto diventa più umano, più vulnerabile, più animale, non più la bestia nascosta dentro, ma espone fragilità e debolezze... questo mi tocca profondamente».


Quando non lavori, cosa fa Lalla? Hai hobby o passioni che non immaginiamo? Ti annoi in solitudine?
«La mia “noia” è fatta di mille cose. Prima di tutto gli animali: dedicherei la mia vita a loro. Oltre ai miei gatti, seguo colonie, creature che non diventeranno mai adulti irriconoscenti. Sono anime pure. Prendermi cura di loro mi fa stare bene, in pace. Poi, ho periodi: una volta ero fissata con la pasticceria. Non amo i dolci, ma per un periodo facevo piccole torte, cupcake decorati con precisione maniacale. Infatti, c'era un mio amico che quando la sera facevo dolci, mi veniva a trovare e se non venivano perfetti, non tutti della stessa altezza, ad esempio, li toglievo. E il mio amico mi diceva: “Li butti?” — “Sì, dammeli a me!”».
Cosa vedremo di Lalla nei prossimi mesi? Hai progetti per l’inverno o desideri ancora inediti?
«Riprendo La Cantata dei Pastori con Peppe Barra, con cui lavoro da quattro anni. È un’oasi felice: lavorare con lui significa giocare e imparare, in un clima leggero ma intenso. Mi dà serenità sul palco. Riprendo Modo Minore, concerto di Enzo Moscato affidato a me dopo la sua morte: ho debuttato l’anno scorso alla Sala Assoli, e a gennaio prossimo saremo al Teatro Nuovo. Ci sono altri progetti all’orizzonte... non amo pianificare troppo, ma qualcosa succederà».
Tornando al Positano Teatro Festival, hai mai pensato di affrontare la drammaturgia di Ruccello?
«Ruccello mi manca. Non ho mai fatto nulla di suo, anche se la sua scrittura mi attrae molto. Ho vissuto gli aneddoti su lui raccontati da Enzo Moscato, che era suo amico. Ma seguo una filosofia tramandata da mia madre: le cose devono accadere quando devono accadere. Non rincorro. Aspetto che vengano da me. Spero succeda un giorno, certo servono persone per sostenerlo e registri adeguati. Non è un autore facile: può apparire popolare, ma in realtà è profondo».
Hai mai pensato di scrivere o hai scritto qualcosa?
«Ho messo insieme qualcosa, quasi per necessità, ma è stato apprezzato. Ho due spettacoli miei, a metà tra teatro e musica, per cui ho scritto la drammaturgia. Uno è dedicato a Domenico Modugno, con un approccio moderno, declinato al femminile. Ho scelto canzoni meno popolari per raccontare la solitudine di quest’uomo che voleva essere attore e inventò la canzone. L’altro è dedicato alla musica da film di Nino Rota: suite continua di musiche e testi recitati da film di Fellini, Wertmüller, Il Giornalino di Gian Burrasca. Così ho creato uno spettacolo continuo, dove musica e parole si fondono. Alla fine, quello che ho scritto è funzionale all’esperienza».