La tragedia in frantumi: Timi al Bellini di Napoli rilegge Amleto nella complessità del presente

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La tragedia in frantumi: Timi al Bellini di Napoli rilegge Amleto nella complessità del presente

Una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi continua a mutare pelle davanti ai nostri occhi. La tragedia del tormentato principe di Danimarca, il fantasma del padre, l'ombra dell'omicidio, la madre risposata troppo in fretta, la vendetta che diventa desiderio di oblio, resta una macchina scenica perfetta, e ogni nuova interpretazione è un campo minato. Amleto è un personaggio che sfugge a chiunque: fragile e feroce, santo e impostore, genio e naufrago… ma quando entra in scena Filippo Timi, tutto cambia.
Amleto², in scena al Teatro Bellini fino al 7 dicembre, è un vortice che ti afferra e ti trascina in una dimensione dove Shakespeare, la stand-up più sfrontata, la blasfemia poetica e l'immaginario queer si fondono in uno “revuoto”, uno scompiglio sfrontato. È Amleto filtrato attraverso un prisma rotto che riflette traumi e risate, vertigini e rivelazioni. Timi, accompagnato da Lucia Mascino, Marina Rocco, Elena Lietti, Gabriele Brunelli e Mattia Chiarelli, costruisce un rito teatrale che sembra un incantesimo invertito: non si sale a teatro per elevarsi, ma per sprofondare insieme nella parte più vulnerabile del reale.
La scena è una gabbia da circo in cui gli attori si muovono come creature intrappolate nella mente stessa del protagonista, tigri addomesticate male o demoni in attesa di essere liberati. Timi ci gioca con una presenza scenica che alterna la leggerezza del clown sacro alla ferocia di un bambino che conosce troppo bene il buio. Fin dall'inizio, con quella meditazione sul male che ha il sapore di un sermone satanico stanco, affermare la sua grammatica: filosofica ma sporca, mistica ma carnale, lucida fino all'allucinazione.


La forza di questo Amleto² è nel duello continuo tra due registri che non si danno tregua. Da un lato c'è il tragico: un tono grave, cavernoso, fatto di frasi che sembrano frasi scolpite sulla pietra. Timi pronuncia certe battute come se venissero da un altrove oscuro: “Il male è inattaccabile”, “Nulla è pratico e non tacere e agire di conseguenza”, “Il teatro è la trappola con cui catturerò la coscienza del re”.  Silenzi che valgono quanto colpi di scena, e una comicità senza eguali: un'irruzione continua di divertissement, nonsense, citazioni pop, un Timi che parla come un viado  brasiliano citando i nomi delle tartarughe Ninja: “Io mi chiamo Donatello e sono il tartarughingio trans”.  Un Amleto che all'improvviso parla in napoletano. E Filippo Timi ci tiene a chiarire: «La faccio sempre in napoletano, non solo adesso che sono a Napoli». E poi le intrusioni di Barbie, Puffi, supermercato, Pinocchio, TikTok, omaggi e sabotaggi della cultura di massa. La vecchia storia può capovolgersi in farsa, eppure i sentimenti restano incrollabili come rocce: l'odio per lo zio, l'amore stanco per Ofelia, la solitudine come destino.
In questo caos orchestrato, i personaggi femminili diventano specchi rotti dell'identità contemporanea. Marilyn Monroe, qui tragicomica e sbrilluccicante, racconta il dramma della celebrità come se fosse un presagio scritto maschile. La Barbie filosofica parla con voce fratturata delle nostre vite sbagliate, dei ruoli che ci soffocano, delle identità che non coincidono mai con il corpo che le ospita. Ofelia appare e scompare come un glitch, e nel suo monologo d'acqua si fa carne e ossa un urlo che grida: “sono viva”, anche quando tutto sembra volerla affogare, ea rendere tutto ancora più struggente è stato il sottofondo musicale: Nothing Compares 2 U cantata da Jimmy Scott.
È in questa zona crepuscolare che la distinzione tra vita e teatro evapora. A un certo punto Timi la dice, questa verità, con una disperata lucidità: «Che teatro squallido la vita. Il sipario si apre. La tragedia la prendiamo in prestito. Ci usa. E ci lascia creare così». È il manifesto dello spettacolo. La vita come recita mal illuminata; il teatro come un luogo dove la finzione diventa più vera del vero. Shakespeare chiedeva: “essere o non essere”; Timi rilancia: “chi ci dirige davvero?”, “quale copione stiamo recitando?”, “siamo attori o vittime?”.
La scena del fantasma, giocata tra Scooby-Doo e metafisica, è un esempio perfetto della drammaturgia di Timi: ti fa ridere fino a quasi dimenticare che ti sta aprendo una ferita. Così come accade nella scena con la madre, che diventa un anello psicanalitico dove amore, rancore e dipendenza si mordono tra loro come animali feriti. E ancora quando Amleto pronuncia il suo monologo d'amore fallito: “tutto questo amore non ce l'ho”, che suona come un vocale WhatsApp mai inviato, un desiderio di normalità che si scontra contro la propria stessa natura frammentata.
E poi arriva Io ballerò di Lorella Cuccarini, e il mondo implode. Il kitsch diventa rito, la tragedia si traveste da talent-show, il teatro si rovescia in un carnevale macabro che non è dissacrazione ma affermazione di vita. Quando Timi dice «Diamoci una spettacolarità», non chiede estetica: chiede sopravvivenza. Chiede di rendere la vita almeno degna del fiato che ci costa.
L'ultima battuta: «Il resto è silenzio», sussurrata come se lasciasse scivolare la propria anima fuori dal corpo, sigilla tutto con una delicatezza devastante. Amleto² non è una riscrittura: è un combattimento rituale con la memoria, con il mito, con la fragilità. È Shakespeare che attraversa il pop, il queer, il mistico, il comico, l'osceno, e ne esce ancora più vero. È l'Amleto di un'epoca che non crede agli eroi ma ascolta le crepe. Un Amleto che ride per non crepare, che danza per non morire, che smonta la tragedia e ce la restituisce umana, scomposta, viva.