La notte poco prima delle foreste di Bernard-Marie Koltès con Pierfrancesco Favino è al Teatro Bellini di Napoli fino al 4 marzo 2019 per la regia di Lorenzo Gioielli e traduzione di Giandonato Crico.
Tale atto unico fu rappresentato per la prima volta nel 1977 al festival di Avignone ed è considerato il capolavoro dello scrittore francese Bernard-Marie Koltès morto a Parigi di AIDS nel 1989 a soli 41 anni essendo nato a Metz nel 1948.
Un estratto di tale monologo è stato presentato al Festival di Sanremo nel 2018 da Pierfrancesco Favino, suscitando un vero e proprio fenomeno social. Il noto attore romano così si è espresso sul Giornale d’informazione del teatro in Campania Proscenio:« Mi sono imbattuto in questo testo un giorno lontano. Mi sono fermato ad ascoltarlo senza potere andare via e ora mi appartiene, vive con me ed io con lui e non so bene il perché. É intimo, leggero, di inquietante attualità e parla non di migranti ma di estraneità, del sentirsi straniero in un Paese. É un discorso che vale anche per tutti i ragazzi italiani che sono costretti ad andare a lavorare all’estero per trovare opportunità: è importante sentire di appartenere a qualcosa e invece succede a tutti di sentirsi esclusi… Lo straniero di Koltès è uno di noi, un espediente narrativo che ci porta altrove, tra donne, angeli, violenza e paura. Ci parla di amore ma un amore pansessuale… Siamo tutti chiusi dentro confini e la nostra giornata spesso è fatta di transenne. Siamo costretti davvero? Non so dove comincia la nostra scelta o se è così senza che abbiamo scelto nulla. Però, contro i confini ci vuole più coraggio.»
Le parole di Pierfrancesco Favino fanno da introduzione al testo rappresentato che è stato definito “un monito e una preghiera laica” da Rodolfo di Giammarco, un diario personale dove compaiono esseri sbandati ed inermi, ombre materne, angeli e demoni, puttane e reietti, emarginati e stranieri e tutti coloro ai quali non sappiamo dare un volto e un nome. Camminano accanto a noi ma sono invisibili perché non li ascoltiamo, non ne vogliamo comprendere i bisogni e le aspettative, non ci riconosciamo nelle loro paure e nei loro desideri.
Sentiamo a mala pena il rumore della pioggia battente ed incessante che dovrebbe purificare l’aria e anche i nostri pensieri rendendoli scevri da pregiudizi di sorta.
La scena è scarna ed essenziale. Si vede una sola sedia e delle luci ad intermittenza. Si ascolta una sola voce quasi rotta dal pianto: è la voce del diverso, dell’escluso, dello straniero, del migrante, del respinto, di colui che non vogliamo vedere e conoscerne le sorti. Le parole sono struggenti e implorano aiuto e consolazione. Favino cattura l’attenzione del pubblico e ad avere con esso una singolare empatia, soprattutto nei momenti in cui scende dal palco e si avvicina agli spettatori e li guarda e li tocca. Riesce per tutta la durata dello spettacolo a prestare la sua voce a un immigrato dell’est senza scivolare nel macchiettistico. Si passa le mani tra i capelli, le mette nelle tasche dei pantaloni, le agita nell’aria, le congiunge spesso nei momenti di grande tensione emotiva. Cammina sul palco, sposta la sedia, si inginocchia ai lati del palco, scende tra il pubblico per affermare la sua scomoda presenza.
Il regista Lorenzo Gioielli dice:«Nella notte poco prima delle foreste, poco prima del punto di non ritorno della nostra umanità, poco prima della fine del mondo, un uomo, uno straniero che ha tentato in tutti modi di diventare un eguale, ferma nella pioggia un ragazzo che sembra un bambino, immacolato. Qualunque cosa si aggiunga a spiegare cosa l’estraneo dice al giovane farebbe un torto a Koltès, a Favino e al pubblico.»
Anche noi ci sentiamo dello stesso avviso. É necessario assistere allo spettacolo ed esserne coinvolti emotivamente e poi, tornati a casa, sentendo ancora in sottofondo l’eco della voce dello “straniero” rileggerne il testo e meditarlo.