Foto di Ciro Serrapica
Sala gremita, diverse persone rimaste fuori. Al Teatro Minerva di Boscoreale (NA) è andato in scena uno dei protagonisti indiscussi della scena jazz italiana: Danilo Rea con A Tribute to Fabrizio De André, spettacolo inserito nel cartellone del Divino Jazz Festival.
Prima che la musica prenda la parola, in un breve dialogo sul palco con Gigi De Luca, Danilo Rea racconta il suo rapporto con Fabrizio De André: «Tutto nasce molti anni fa, quando con i Doctor 3 fummo contattati da Dori Ghezzi. L'occasione arrivò quando mi invitò a suonare in piano solo nella villa di De André, in Sardegna. Lì, in pochissimo tempo, lo confesso, improvvisai un concerto sulle musiche con cui ero cresciuto. De André, per la mia generazione, è stato un faro: un poeta dell'impegno. Era un altro modo di scrivere canzoni, profondamente italiano. Da quell'esperienza è iniziato un percorso in continuo cambiamento, che ha portato anche a un disco registrato dal vivo. L'improvvisazione è come parlare: cambia con il tempo, con l'esperienza e con chi hai di fronte. E anche la storia che racconti, negli anni, maturazione».
Danilo Rea parla anche dell'assenza della parola cantata, di quel timore iniziale: «Ma senza testo, come facciamo? Poi ho capito che i testi di De André sono nella memoria di tutti. La forza evocativa di una canzone resta, anche quando il testo non c'è. Io cerco di seguire la mia memoria del testo e il senso profondo della canzone, evitando schemi o cliché. E, spesso, questo tipo di interpretazione mi viene naturale».

Danilo Rea con Gigi De Luca
Infine, alla domanda sui pregi ei limiti del jazz, Danilo Rea afferma: «Il grande pregio del jazz è aver rimesso in circolazione l'improvvisazione. In realtà, già i musicisti del passato, dal barocco, improvvisavano. Con il tempo la musica è stata codificata, le scuole hanno irrigidito il pensiero e la creatività si è mossa su binari sempre più stretti. Il jazz ha riportato libertà. Un musicista studia le note come le parole, ma poi deve usarle per raccontare qualcosa di sensato. L'errore fa parte di questa libertà: dal rischio può nascere un'idea creativa. Oggi, invece, il perfezionismo eccessivo rischia di rendere la musica fredda. Il limite del jazz è la possibilità di diventare autoreferenziale. La tecnica deve essere solo un mezzo per comunicare: l'emozione è fondamentale. I grandi del passato sapevano parlare a tutti. Il rischio, oggi, è che il jazz diventi sempre più difficile e sempre meno comunicativo. Per questo dico ai giovani musicisti: cercate di essere comunicativi».
Poi Rea si siede al pianoforte. Nessuno spartito, solo le sue dita sugli ottantotto tasti e una memoria emotiva grande quanto una vita. E parte.Tecnica formidabile, Danilo Rea usa tutta l'estensione del pianoforte, fluidità che non chiede permesso. Le melodie sembrano nascere sul momento, il tocco passa da leggero come una piuma a percussivo, martellante: a tratti sembra di sentire rulli di timpani, a tratti assoli di vibrafono. Il pianoforte diventa orchestra, scenario, corpo.
L'entusiasmo è contagioso per il De André senza parole, ma con tutte le parole addosso. Rea lo aveva detto chiaramente: togliere il testo non significa perderlo. «I testi di De André sono nella memoria di tutti. Il testo resta. E resta anche l'interpretazione che il musicista dà a quel testo».
Ed è vero: La canzone di Marinella, Via del Campo, Il Pescatore, Girotondo, Bocca di Rosa emergono riconoscibili eppure nuove, come se qualcuno le avesse immerso in un altro tempo.
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Geniale e godurioso il gioco dei mash-up: Don Raffaè che strizza l'occhio a Puttin' on the Ritz; La canzone di Marinella che si lascia contaminare da Bésame Mucho. Rea lo racconta sorridendo, con quella sincerità disarmante dei grandi: ricorda l'incisione con Mina, la struttura irregolare del brano, e confessa: «Ogni tanto, perdonatemi, ma io mischio le cose». Per fortuna lo fa.
Il jazz, per Rea, è rischio. È libertà. È errore che diventa idea. Lo ha detto chiaramente: il pregio del jazz è essere liberatorio, il suo limite è diventare autoreferenziale. Qui, al Minerva, di autoreferenziale non c'era nulla. C'era comunicazione pura. Emozione che passava di mano in mano, di tasto in tasto.
Al bis, il regalo finale: un omaggio al cantautorato genovese che suona come una dichiarazione d'amore collettiva. Ritornerai di Bruno Lauzi, Il nostro concerto di Umberto Bindi, Io che amo solo te di Sergio Endrigo, Senza fine di Gino Paoli. E infine lei, inevitabile, definitiva: Bocca di Rosa.
Sipario. Applausi lunghi, necessari. Qualcuno fuori sarà rimasto con l'amaro in bocca. Dentro, invece, tutti con la sensazione rara di aver assistito a qualcosa che non si replica mai uguale. Perché, come l'improvvisazione, anche certe serate accadono una volta sola. E poi diventeranno memoria.