Dalla risata amara alla risata d’evasione: il cinema secondo Neri Parenti. Intervista

- di

Dalla risata amara alla risata d’evasione: il cinema secondo Neri Parenti. Intervista

È stato il regista che ha fatto ridere milioni di italiani, ma anche uno dei più bersagliati dalla critica. Neri Parenti, con oltre quarant’anni di carriera, è una figura centrale nella storia della commedia italiana: dai capitoli finali della saga di Fantozzi ai cinepanettoni che hanno accompagnato decenni di Natale al cinema. La sua firma è riconoscibile: gag fulminee, comicità fisica, situazioni paradossali, e una profonda conoscenza dei meccanismi del ridicolo.
In quest’intervista, Neri Parenti ci apre le porte del suo laboratorio comico: dagli inizi rocamboleschi in RAI fino all’incontro con Paolo Villaggio, passando per riflessioni pungenti sul rapporto con la critica, sull’evoluzione del pubblico italiano e sull’eredità, spesso sottovalutata, del cinema popolare. Con ironia, memoria lucida e un pizzico di disincanto, racconta l’Italia attraverso le sue risate, sempre in bilico tra satira sociale e puro intrattenimento.
La sua cifra stilistica è stata spesso identificata nella gag slapstick e nella commedia di situazione, con radici nel cinema muto e nella tradizione italiana. Guardandosi indietro, si è mai sentito intrappolato in un’etichetta comica che ha finito per oscurare altri aspetti più autoriali del suo lavoro?
«No, assolutamente no, perché nei film che facevo pur sembrando uguali in effetti erano diversi, perché le comiche sicuramente erano diverse da Fantozzi, come Fantozzi era diverso dalle vacanze di Natale, cioè all'interno erano diversi i film, non erano tutti uguali. C'erano i slapstick ma anche no».
Lei ha inventato anche un tipo di comicità...
«Beh, quella l’ho più rubata che inventata. Ci siamo rivisti e rivisti, si fa così, però ci si mette lì, si vedono tutti... Ai tempi c'erano ancora le videocassette da Buster Keaton ine poi, chiaramente non è che si copia pedissequamente, però lo spunto si prende».
I suoi cinepanettoni, pur avendo riscosso enorme successo di pubblico, sono stati spesso oggetto di critiche da parte della stampa e del mondo accademico. Qual è, secondo lei, il vero malinteso tra il cinema popolare e certa critica italiana?
«No, la critica non è nata per criticare Vacanze di Natale. La critica è nata per criticare Jodorowsky, Hitchcock, i grandi registi, eccetera. Poi, chiaramente facendo quel mestiere si sono trovati a dover recensire anche quello, ma non tutti i film si vedono dalla stessa seggiola, dico io.
Perché se uno voleva recensire un film comico, il giudizio deve essere se è comico o non è comico. Non poi, ah, la schifezza, le cose... Insomma è stato attaccato, poi dopo è stato attaccato, poi dopo invece è stato rivalutato. Non pensiamo che ci sia stato un periodo in cui quei film hanno finanziato il cinema italiano per una decina d'anni. Sono stati quei film che hanno fatto quanto fare gli altri film».
Con oltre quarant’anni di carriera alle spalle e sei film tra i 50 più visti della storia del cinema italiano, cosa ritiene sia cambiato nel pubblico italiano? E quale sarebbe, oggi, la sua sfida registica più interessante da affrontare fuori dal genere comico?
«Quello che è cambiato nel cinema italiano è che la gente non va più al cinema. Io non mi parlo di poco conto. Nel senso che il cinema come sala è stato sostituito da alternative, valide per carità, assolutamente. Solamente un certo tipo di cinema, cioè quello popolare, ha sempre vissuto l'incasso della sala. Una volta che l'incasso della sala per questo genere non c'è più, perché evidentemente non richiama. Chiaramente è il genere che soffre. Cosa fare? Se lo sapessi!».


Come si è avvicinato al cinema?
«In realtà, il mio sogno era quello di fare lo sceneggiatore, non volevo diventare regista. Ebbi però l’occasione, grazie a un concorso, di iniziare un praticantato, all’epoca nel giornalismo si usava così: si entrava in redazione per fare esperienza, poi si vedeva come andava. Mi mandarono alla RAI. Parliamo di circa cinquant’anni fa. Non è cambiato molto da allora: non ti facevano fare nulla, ti chiudevano in una stanza. Io protestai, e proprio in quel periodo la RAI stava producendo il suo primo film: Addio fratello crudele, un film in costume bellissimo diretto da Patroni Griffi, con Charlotte Rampling, Oliver Tobias e Fabio Testi. Così mi mandarono su quel set. All’epoca, l’ambiente del cinema era piuttosto... folkloristico, diciamo. Gente che sapeva scrivere una lettera ce n’era poca, il clima era molto “ahò, annamo!”. Io mi presentai in giacca, avevo 19 anni, sembravo un pesce fuor d’acqua. Uno dei capi produzione mi guarda sospettoso e mi fa: “Ragazzini qui ce ne sono già, ma tu chi sei? Che vuoi?”. Io risposi: “Sono Neri Parenti, mi manda la RAI. Se mi dice cosa devo fare, lo faccio”. Lui mi fa: “Facile. Stai tre metri dietro la macchina da presa, non mettere i piedi sui cavi e non rompere il cazzo”. Ecco, questo è stato il mio esordio nel mondo del cinema. Poi, ebbi una grande fortuna. Mia madre era inglese, quindi ero l’unico a capire cosa dicesse Charlotte Rampling, che spesso sbottava con lamentele in inglese. Una volta disse che c’era un topo nel camerino e nessuno capiva. Io tradussi: “Sta dicendo che c’è un topo nel camerino”. “Ma tu la capisci?”, mi chiesero. “Certo che la capisco.” E allora: “Da oggi non ti muovi da accanto a me”. Così è iniziata la mia carriera… come traduttore ufficiale del topo di Charlotte Rampling».
E com'è arrivato poi a fare l’aiuto regista?
«Da lì ho cominciato a fare l’assistente alla regia e, passo dopo passo, sono andato avanti. Il primo vero incarico come aiuto regista arrivò con Salvatore Samperi, nel film Malizia, un titolo mitico. Proprio in quell’ambiente conobbi il produttore Turi Vasile (che però non era legato a Malizia), e grazie a lui diventai aiuto di un grandissimo maestro della commedia italiana: Steno, uno dei più importanti registi del genere».
Com’è stato il suo primo incontro con Paolo Villaggio?
«Il primo incontro fu… traumatico! Mi chiamò il produttore Lombardo e mi disse: “Ho parlato con Villaggio, gli ho detto che avevamo pensato a te. Non per la regia, per carità… però insomma”. E lui — Villaggio — entusiasta: “Ma che bella idea! Meraviglioso! Neri è una persona fantastica! L’ho conosciuto”. Io ci avevo già lavorato con Villaggio, ai tempi in cui facevo l’aiuto regista, con Steno. Così mi presento a casa sua e lui, appena mi vede, mi squadra e fa: “Ma lei chi è? Ma tu chi sei?”. “Mi chiamo Neri Parenti.” “Ah… io pensavo fossi un altro.” E io lì, in imbarazzo, mi sono detto: E adesso che faccio? Alla fine mi fa: “Vabbè, ormai sei venuto te a fare il film… fallo te”. E da lì, ne abbiamo fatti venti di film insieme».
Vorrei che mi raccontasse qualche aneddoto su Paolo Villaggio. Cosa ricorda maggiormente di lui?
«La cosa più incredibile di Paolo è che, nella vita reale, era l’esatto opposto di Fantozzi. Ma proprio l’esatto. Gli piacevano i soldi, gli piaceva spendere, adorava le donne, voleva stare solo negli alberghi più lussuosi, viaggiare in aerei privati, guidare macchine di lusso. Aveva un tono imperioso: “Mi prenoti un aereo privato per andare lì... poi prendo una jeep e faccio una gita in motocicletta!”. Poi, bastava che si accendesse la macchina da presa e Paolo... “Ah, com’è buono lei!”, ed ecco che tornava subito Fantozzi. Era anche una persona molto intelligente, negli attori non è una qualità così comune. Non perché siano scemi, eh, ma spesso sono travolti dal successo, dall’idolatria, e finiscono per perdere contatto con la realtà. Paolo no. Lui non si è mai sentito un attore in senso stretto. Una volta mi disse: “Sai, mi ha chiamato Fellini”. E io: “Beh, è una gran cosa!”. E lui, con tono sospettoso: “Mah, ma che vorrà ‘sto Fellini da me?”. Era anche molto cinico. Cattivissimo, a tratti. In questo ci trovavamo bene: io non sono cattivo, ma sono cinico. Così, nei lunghi tempi morti tra una scena e l’altra, mentre si sistemavano luci o inquadrature, invece di studiare le battute, Paolo passava il tempo a pensare a come fare dispetti alla gente. Racconto un aneddoto legato a Scuola di ladri, il film che girammo con Villaggio, Massimo Boldi e Lino Banfi. Erano gli anni ’80, e a Roma c’era un solo ristorante giapponese, si chiamava Hamasei. All’epoca nessuno mangiava sushi o sashimi, nessuno mangiava la cucina giapponese. Paolo però l’aveva scoperto e se n’era innamorato. Così, mentre tutti pranzavano con il solito cestino sul set, lui si faceva portare questa elegante scatolina verde con dentro sushi, sashimi e altre prelibatezze. Un giorno, ovviamente, la cosa attira la curiosità di Boldi e Banfi. “Scusa, che ti portano da Roma? Cos’è quella roba lì?”. E Paolo: “Una cosa buonissima. Domani venite e la assaggiate anche voi”. Il giorno dopo, nella sua roulotte, arrivano le famose scatoline. Tutti si siedono, aprono le confezioni e dentro trovano il sushi. Solo che, come i pasticcini, i pezzi erano avvolti nella classica carta decorativa. Boldi e Banfi si guardano perplessi, poi ne prendono uno... con tutta la carta, pronti a metterselo in bocca. Io faccio per fermarli, e Paolo mi blocca subito: “Non mi rovinare una delle giornate più belle della mia vita”. E niente, se lo sono mangiato con tutta la carta. Io, ovviamente, ho fatto finta di niente».


Se oggi dovesse dirigere un nuovo Fantozzi, com’è che lo immaginerebbe? Precario? Influencer? Ostaggio dell’algoritmo?
«Sarebbe schiavo di tutto. Di tutto insieme. Probabilmente avrebbe la figlia della brutta influencer. Lui si metterebbe in criptovalute, a rovinarsi con le criptovalute. La moglie, non so, un programma di cucina, insomma, si metterebbe nei guai».
Di Fantozzi c’è qualche scena in particolare che ritiene particolarmente significativa per comprendere l’Italia di allora? 
«La ribellione, soprattutto. La ribellione di una casta, in qualche maniera, silenziosa, laboriosa, mite, come era Fantozzi. Un po' Dostoevsky italiano».
C’è chi dice che il passaggio da Fantozzi a Natale a Miami segni il declino della commedia italiana. Cosa risponde?
«Beh, Fantozzi è diverso, e non è vero, perché anche Fantozzi l'hanno massacrato. Io me li ricordo i primi che ho fatto, l'hanno massacrato. Poi, invece, è diventato una specie di cult movie in cui tutti dicono che bello, che bello. Però è stato massacrato anche quello. Probabilmente non tutti, eh. Però qualche film di Natale, tra qualche anno, io sono sicuro che sarà rivalutato».
Lei è un grande appassionato di un certo tipo di commedia americana, vero? In particolare di quel filone più demenziale?
«Sì, mi è sempre piaciuto molto quel periodo del cinema comico americano, soprattutto il filone demenziale. L’aereo più pazzo del mondo, per esempio, lo trovo geniale. E poi John Landis, naturalmente. Il mio film preferito in assoluto è The Blues Brothers. Lo adoro perché racchiude tutto ciò che mi piace in un film: la comicità, l’avventura, la musica... c’è tutto. È un concentrato perfetto di intrattenimento.»
Sta pensando a qualcosa in questo periodo? 
«Sì, sto pensando a qualcosa, ma, come ti dicevo prima, la via è ardua».