
L'inquietante e potente Extra Moenia di Emma Dante, in scena al Teatro Bellini di Napoli fino al 16 marzo, si presenta come un'opera stratificata e senza respiro, che esplora le profondità della condizione umana in tempi di conflitto e disillusione. Non si limita a raccontare storie individuali, ma diventa un atto collettivo di riflessione sul presente, sulla guerra, sulla violenza e sulle fragilità della società.
L’intera comunità diventa protagonista, con le sue voci intrecciate in un mosaico di sogni, ricordi, aspirazioni e idiosincrasie. Il tempo è ciclico e immutabile; il portato della narrazione, universale.
Nel buio iniziale del palco, dodici attori in piedi, dormienti, sembrano sospesi in un tempo indefinito, per poi risvegliarsi lentamente, come se stessero prendendo consapevolezza di sé e del mondo che li circonda. Con la canzone Bella Ciao dei Modena City Ramblers, il loro risveglio si trasforma in un processo di “svestizione” simbolica: via i pigiami e le vestaglie, via le false sicurezze, per entrare nella realtà quotidiana, quella di abiti che non definiscono l’anima, ma piuttosto l’essenza della nostra esistenza. L’effetto è straniante, quasi onirico, eppure incalza una riflessione senza tregua su ciò che davvero ci definisce.
Emma Dante parla dello spettacolo come un viaggio portato in scena come metafora universale. Viaggio che inizia nel caos, e che si snoda tra parole spezzate, monologhi a singhiozzo, spesso disconnessi, ma che alla fine si intrecciano, come le storie di individui intrappolati in un destino comune. Viaggio che diventa il cuore pulsante dello spettacolo, un cammino che riflette le esperienze di chi fugge dalla guerra, dalla miseria, dall’oppressione. Un viaggio che non ha fermate, ma che continua senza soluzione di continuità, perché la vita stessa è un eterno cammino, segnato da incontri, scontri e frammenti di vita.
Emma Dante non ci offre un racconto lineare, ma una carrellata di monologhi intensi che ci parlano di storie universali: l’esplosivo e devastante trauma della guerra, la brutalità della violenza contro le donne, performance di grande impatto emotivo che finisce con la declamazione dell’Inno all’amore dalla Prima lettera ai Corinzi sulle note di Experience di Ludovico Einaudi, con la bellissima interpretazione di Leonarda Saffi. La desolazione del migrante, che attraversa confini e terre desolate in cerca di un rifugio che sembra sempre sfuggirgli, che accasciato a terra con il cartello Help me, viene scansato ed evitato da passanti distratti. Ma non c’è retorica, né enfasi. Ogni storia, pur dolorosa, è presentata senza giudizio, come un frammento che va oltre l’individuo per farsi voce di una collettività in crisi.
Uno dei primi monologhi più incisivi è quello del capotreno, un bravissimo Adriano Di Carlo, che enumera i divieti imposti dalla società e dallo Stato, come a voler segnare i confini fisici e morali di una vita che sembra sempre più limitata. La sua voce, meccanica e senza empatia, si fonde con le voci dei viaggiatori, ciascuno dei quali porta con sé il proprio dolore, le proprie frustrazioni. In un momento di feroce satira sociale, gli attori sfilano mostrando cartelli che riportano questi divieti, diventando simboli di una società che limita la libertà in ogni suo angolo: «Vietato manifestare in pubblica piazza. Vietato ogni assembramento non autorizzato. Vietato feste e festini. Vietato baciarsi in pubblico: uomini con uomini, donne con donne. Vietato formare famiglie non tradizionali. Vietato affidare incarichi pubblici a omosessuali. Vietare la gestazione per altri, considerata reato universale. Vietato esprimere opinioni in contrasto con i rappresentanti del governo…».
La forza del lavoro di Dante sta nella sua capacità di rendere ogni personaggio un mondo a sé stante, pur facendolo convivere all’interno di un paesaggio condiviso. Tra i più memorabili, ci sono le interpretazioni di Giuditta Perriera, la “Zitella” Maria, con il suo siciliano stretto e veloce, quasi incomprensibile, dipinge una donna segnata da una solitudine forzata, e Italia Carroccio, che con sarcasmo e drammaticità ci fa entrare nel mondo di una donna preda di un mercato immobiliare spietato e della frustrazione del nostro tempo.
In una performance straordinaria, Roberto Burgio interpreta il generale di guerra, una figura che giustifica il conflitto come atto eroico, dichiarando che «La guerra è bella. La vita militare mi ha dato un’identità, una fede, un futuro». La sua figura diventa simbolo della perversione del potere, che giustifica la brutalità sotto la maschera della disciplina e della gloria. La guerra come normalità, la guerra come selezione naturale, come strumento di purificazione, fino ad arrivare a un monologo con parole diverse citazioni, come quella presa dal Meridiano di sangue di Cormac McCarthy: «La guerra esiste da che esiste la vita. Prima che nascesse l'uomo, la guerra lo aspettava e dall'alba dei tempi vi è inseparabile compagna». O da Benito Mussolini: «La guerra è un'attività degli stati proprio della loro essenza ed è bella, perché è più spettacolare della pace, perché imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla», o dal Manifesto Futurista di Marinetti: «La guerra fa pulizia, deterge e infonde nel mondo, nuova linfa». Che riprende un po’ la teoria della guerra giusta, una convinzione degli ultimi anni, che una guerra, pur non essendo una guerra di autodifesa, debba considerarsi giusta.
La rappresentazione del dolore delle donne, come la testimonianza di una donna ucraina (Francesca Laviosa), sembra riecheggiare la cupa afflizione dei versi di Ceremony After A Fire Raid di Dylan Thomas, e racconta con disperazione la devastazione della sua vita a causa della guerra. Afferma di aver perso tutto, tranne il proprio corpo, ridotto a un oggetto di sfruttamento. La sua città natale ridotta in macerie. «La guerra è una realtà che le donne non hanno mai voluto», dice. E parla del famoso 16 marzo 2022, con gli attacchi russi su Odessa e allarmi in diverse città ucraine, negli Stati Uniti condannano Putin come "criminale di guerra" e così descrive il doloroso processo di scavare tra le rovine della sua casa distrutta fino ad arrivare al tragico momento in cui trova il corpo senza vita della sua bambina. Diventa impotente, quando incontra i soldati che, dopo averle deriso la sofferenza, le strappano la figlia dalle braccia. La sua condizione di non poter nemmeno scegliere la morte diventa simbolo di una guerra che annienta ogni possibilità di dignità e speranza.
Il monologo dell'immigrato congolese, interpretato da Verdy Antsiou, lo fa emergere come un’anima spezzata, intrappolata in un eterno limbo tra passato e presente. La sua voce, oscillante tra il francese e l’italiano, diventa un lamento disperato, il suono di una memoria lacerata dalla violenza e dalla speranza tradita. Prima ragazzo costretto a impugnare un fucile dopo aver assistito al martirio della sua stessa famiglia, poi uomo in balia delle onde, ora ombra calpestata da una società che lo ignora.
Il culmine arriva quando, boccheggiando in un mare di plastica, rivive la sua traversata: un’immagine potente, soffocante, che inchioda il pubblico di fronte all’inaccettabile realtà di chi insegue un sogno solo per ritrovarsi prigioniero di un nuovo incubo.
Ogni elemento della scenografia, dalla musica (che spazia da Bella Ciao a Alors on danse di Stromae) ai dettagli minuziosi delle interazioni quotidiane, fa eco alla tematica centrale: il viaggio non è solo fisico, ma esistenziale, e ogni passo ci porta ad affrontare l’orrore e la bellezza dell’umanità, senza giudizio o idolatria, col solo intento di dar luce all’umanità universalmente composita.
Poi c’è la studentessa islamica Ahou Daryaei (Silvia Giuffrè), ripresa dalla polizia morale per il suo hijab improprio e lei se lo tolse, trasformando il suo corpo privato in un corpo pubblico, sfidando il regime che controlla costantemente i corpi delle donne. Poi arrestata e ricoverata in ospedale psichiatrico: «Sono stata graziata perché considerata pazza, ma il mio nome è Libertà».
Il viaggio finisce in questo mare inquinato dalla plastica sulle note del brano di Vinicio Capossela, SS dei Naufragati, che prende qualche allegoria dal Moby Dick di Melville e dal poemetto La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, e del capitano di una nave che decide di virare dritto verso la morte, portando con sé tutto il suo equipaggio.
Altri personaggi attraversano questo viaggio come la coppia di promessi sposi (Angelica Di Pace e Daniele Savarino): «Adoro svegliarmi accanto a te la mattina! Questo mi piace! Adoro quando la sera mi prepari la cena! Questo non mi piace! Io voglio tanti figli da te! Io voglio lavorare, realizzarmi, gratificarmi!», la giovane donna non vuole essere ingabbiata da un destino dettato dalla società patriarcale, ma vuole una propria autonomia e identità personale. E poi ancora: Gabriele Greco, David Leone, Giuseppe Marino, Ivano Picciallo.
Extra Moenia lascia il pubblico in uno stato di riflessione profonda, con una sensazione di impotenza e di speranza allo stesso tempo. Extra Moenia è un invito a non chiudere gli occhi, a non ignorare l’altro, e a non dimenticare che il viaggio di ciascuno, per quanto doloroso e arduo, è anche un viaggio collettivo. E forse, solo riconoscendo questo legame, possiamo sperare in una salvezza, pur nel mezzo del caos.