Ancora un tutto esaurito, ancora un grande successo per la programmazione al teatro Minerva di Boscoreale (NA) con lo spettacolo Buonasera a tutti! (dai miei disordinati appunti) che non è uno spettacolo: è una casa aperta, un album di famiglia, una messa laica cantata in napoletano da un grande del nostro teatro Peppe Barra, con il pianoforte complice del M° Luca Urciuolo e la regia sobria e intelligente di Francesco Esposito, che lascia spazio alla cosa più potente di tutte: la voce, il corpo, la memoria.
Peppe Barra non va visto, va attraversato. Si parte da Core a core, cuore che si traveste, che recita tutte le parti della vita, è Peppe Barra stesso: monaco, guappo, innamorato, Pulcinella, bambino. Teatro Puro. Carne e poesia. Poi il racconto: nasce a Roma per sbaglio, ma l'anima è divisa tra l'incantata isola di Procida e Napoli, come un figlio che ama due madri e non sceglie. La Procida incontaminata del dopoguerra, la chiesa come primo palcoscenico, l'opulenza sacra vista con gli occhi spalancati di un bambino. Le statue vestite, i profumi di incenso e varechina, la Madonna del Carmine che diventa regina, le donne che la preparano come si prepara una diva prima di entrare in scena. Senti la cannella, vedi l'oro, ti perdi.
Buonasera a tutti è per Barra un racconto d'infanzia, una stagione preziosa, di cui ogni parola e ogni gesto hanno plasmato l'uomo, ma soprattutto l'artista, indomabile ed eterno, la cui arte è l'esito non riproducibile di una stratificazione storica, linguistica e rituale oggi definitivamente perduta. Barra di fatti appartiene ad una specie ormai estinta, la sua arte non è replicabile né trasmissibile, ma solo testimoniata e proprio per questo, universalmente grande.
Con Procidana la nostalgia diventa canto d'amore, popolare e sacro insieme. Peppe Barra non interpreta: evoca. Subito dopo, il Napoli prende parola. Chiaia, i vicoli, Vico Vasto: un affresco umano fatto di nomi, voci, guarattelle, mammà che canta in casa mentre la vita passa. È una città che non esiste più, ma che sul palco respira ancora.

Arriva Piedigrotta, ed è un'esplosione: colori, odori, tammorre, 'o brodo 'e purpo, scugnizzi, 'o cuppulone. Con Viviani e la sua Festa di Piedigrotta si ride, si balla. Napoli folle e sensuale, colta e carnale, vera ed esagerata. Il racconto si fa più intimo: la famiglia, il pranzo, la festa, il 24 luglio 1954. Un fermo immagine di felicità. Barra lo dice senza retorica, con potenza dirompente. Con Beguine di Patrizio Trampetti, il tempo scivola, la vita cambia, “e si poi nun turnammo cchiù, cagna vita e nun ce penzà”. Poi i maestri: Roberto De Simone, Zietta Liù, pseudonimo di Lea Maggiulli Bartorelli, l'infanzia come culla del teatro. E le canzoni giocose, irriverenti, cattive al punto giusto: La gallina, Papaveri e papere. Il riso che diventa strumento educativo. Geniale.
Il cuore nero arriva con Basile e La vecchia scortecata: «Basile aveva scritto tantissime favole e, tutti gli altri favolisti che sono venuti dopo, hanno attinto da questo grande autore. Questa favola l'ho un po' rimaneggiata, riscritta, perché se ve l'avessi raccontata con la lingua arcaica di quell'epoca, avreste capito ben poco», racconta Peppe Barra. E qui lui si fa sciamano, cantastorie, demonio e nonnina insieme. La morale di questa favola è: “la mmidia smafora lu mazzo”, vale a dire che “l'invidia ti esce dal tuo stesso culo”.
Poi l'amore diventa mosca, sanguetta, verme peloso che ti mangia il cuore. Altro che romanticismo: qui si dice la verità, nuda e crudele. Con Serenata di Pulcinella di Cimarosa si torna alla maschera, che maschera non è mai. E nel finale, tra poesia, filastrocche, e sempre con il grande sarcasmo che lo contraddistingue, Profumi e balocchi, e Barra chiudendo il cerchio: il teatro come utero, come infanzia eterna, come luogo dove non si smette mai di essere vivi.
E quando sembra che il viaggio sia compiuto, che la memoria abbia detto tutto quello che poteva dire, Peppe Barra fa l'ultimo scarto. Un bis atteso, reclamato, la Tammuriata Nera. La performance assume i tratti di un rito orgiastico arcaico, in cui l'io si frantuma e si moltiplica: il corpo dell'attore si fa medium della voce di mille anime che, vorticosamente, si agitano e scalpitano. È una dichiarazione. È memoria che diventa resistenza, tradizione che smette di essere nostalgia e si fa atto politico. E prima ancora di cantare, spiega:«Al di là del senso ironico e ammiccante, pensate che Mario e Nicolardi la scrissero nel 1945 subito dopo la guerra, quando Napoli aveva già subito gli orrori del conflitto e continuava a subire quotidianamente violenza. Violenza soprattutto sulle nostre donne del Sud, che venivano abusate dai soldati neri, e dopo nove mesi nascevano bambini neri che il popolo napoletano, comunque, chiamava con i nomi tradizionali: Peppe, gGiro, 'Ntuono. Dietro la maschera allegra e ridanciana di un popolo si nascondevano, come sempre, rabbia, disperazione, angoscia».

Ricorda che Mario e Nicolardi, studiosi profondi del mondo etnico-popolare campano, chiamarono quella canzone tammurriata non a caso: perché le tammurriate sono riti esorcistici, scaramantici, magici. Perché il tamburo, fatto di materia organica, è lo strumento evocatore per eccellenza, presente in tutte le culture del mondo quando c'è da scacciare il male, quando c'è da nominare l'orrore per non esserne divorati.
«Noi la guerra ce l'abbiamo addosso, continua Peppe Barra. E io, attraverso gli anni, questa canzone l'ho cambiata: da canzonetta l'ho fatta diventare un grido. Un grido di dolore, un grido di paura, un grido di angoscia. E l'ho dedicata a tutte le donne che, ancora oggi, soffrono abusi e violenze. È a loro che la dedico».
Subito dopo, Peppe Barra parla da cittadino: «E poi lo dico, come si dice a un amico: a me questo governo non piace per niente». Lo dice semplice, netto, senza retorica. E ricorda la laurea honoris causa ricevuta dall'Università Federico II, il suo ruolo di docente, il dialogo continuo con gli studenti: «Ai miei studenti dico che, per fugare questo brutto momento che stiamo attraversando, questo tempo di nebbia scura, di buio, di buio totale, bisogna impugnare un'arma potentissima. Bisogna prenderne coscienza. Bisogna impugnare la spada della cultura e con quella combattere».
Memoria, musica, teatro, identità. Peppe Barra non racconta la sua vita: la condivide. Peppe Barra fa Peppe Barra. E meno male che esiste.