
In un luogo dove troppo spesso si parla solo di margini, degrado e silenzio, un'opera teatrale ha rotto ogni barriera restituendo voce, dignità e bellezza all'umanità nascosta dietro le mura del carcere. Le Troiane di Euripide, diretta da Cinzia Mirabella e messa in scena all’interno del Centro Penitenziario di Secondigliano, ha rappresentato molto più di uno spettacolo: è stata un’esperienza emotiva e civile, un rito di condivisione profonda.
Al centro, le protagoniste: donne trans detenute, che hanno incarnato con coraggio e autenticità le figure tragiche della guerra di Troia. Raffaella (Ecuba), Isabella (Elena e Polissena), Federica (Cassandra), Patrizia (Andromaca), Melissa (nel coro) e Pamela (corifea) non sono attrici professioniste, ma testimoni viventi di dolore, amore, colpa e redenzione. Con loro, unica attrice non detenuta, Chiara Babo ha prestato la voce a un’Ecuba simbolica e lacerata: Raffy, che la impersona in scena, oramai sordo-muta per il troppo dolore che ha restituito con il silenzio ciò che a volte le parole non sanno dire: la devastazione dell’anima
L’opera, scritta da Euripide nel 415 a.C., narra le sorti delle donne troiane ridotte in schiavitù dai vincitori greci, gli stessi uomini responsabili del massacro dei loro cari e della distruzione della loro città. È una tragedia sulla guerra, ma soprattutto sull’invisibilità e sull’umiliazione femminile.
Nella lettura registica di Cinzia Mirabella, questo dolore antico si innesta sulle biografie delle interpreti, e la scena si fa così campo di risonanza tra passato e presente, tra mito e realtà.
Cinzia Mirabella firma una regia asciutta, intensa e profondamente rispettosa del contesto umano e sociale in cui si inserisce. La sua lettura di Le Troiane non punta alla ricostruzione storica, ma alla verità dei corpi e dei volti. La scena è scarna, quasi rituale, e lascia spazio alle emozioni nude delle interpreti. Non c’è artificio, non c’è mediazione: il dolore delle troiane è il dolore delle attrici, e viceversa. Mirabella costruisce un ponte invisibile ma potente tra la tragedia classica e la contemporaneità, e lo fa attraverso un gesto registico essenziale, che sa quando guidare e quando, invece, lasciar emergere. È una discesa ininterrotta nell’abisso dell’umanità ferita, che si chiude senza catarsi ma con una profonda consapevolezza: il teatro, anche, e soprattutto, in carcere, è possibilità di trasformazione.
Durante lo spettacolo, ogni attrice si è fermata e ha raccontato in breve con parole semplici e nude il proprio passato: “Sono qui per amore”, dicevano. Alcune per essersi prese colpe non loro, altre per aver amato l’uomo sbagliato. Un momento che ha spezzato il confine tra finzione e realtà, lasciando il pubblico, agenti, volontari, detenute, operatori, senza fiato. Un momento di solidarietà femminile durante la commedia, accomunate dalla stessa sorte la cui identità, come nelle Troiane, si trasforma sotto i loro piedi dopo la carcerazione: da regine e nobildonne a schiave, concubine, trofei di guerra e agnelli destinati al macello.
E poi arriva lei, Pamela, che tra il primo e il secondo atto regala al pubblico una performance inattesa e straordinaria: interpreta E dimmi che non vuoi morire di Patty Pravo. È un momento fuori dal tempo, carico di pathos e leggerezza insieme. Il suo lip sync è sicuro, l’interpretazione perfetta. Il pubblico, coinvolto e rapito, si alza in piedi e canta con lei. L'entusiasmo è tale che, alla fine dello spettacolo, le viene chiesto il bis. Ma Pamela non è solo una performer carismatica: è una drag affermata, ha organizzato concorsi drag e serate, e ha anche realizzato con le sue mani i bellissimi costumi dello spettacolo. La sua presenza scenica è solida e generosa, e rappresenta il cuore artistico e artigianale di questo progetto.
In Le Troiane di Cinzia Mirabella il mito, qui, si fa specchio del presente. Non c’è bisogno di scenografie grandiose per raccontare la guerra: bastano dei corpi segnati, degli sguardi feriti e una verità che lacera. Cassandra, Andromaca, Polissena... non sono più personaggi, ma simboli viventi della violenza che le donne subiscono ancora oggi, dentro e fuori le mura grigie del penitenziario.
E proprio qui, a Scampia, dove la cronaca si è dimenticata di raccontare la speranza, Le Troiane ci ricordano che anche dal dolore può nascere arte. E che il teatro, quando è vero, può essere riscatto, dignità e memoria. Una standing ovation silenziosa per chi ha il coraggio di mettersi a nudo. Perché, come diceva Euripide, “nessun dolore è più grande di quello taciuto”.
Cinzia Mirabella
Dopo l’intensa rappresentazione, scese dal palco è avvenuto un altro incontro vero, quasi familiare. È lì che il pubblico ha potuto conoscere le attrici non più solo come personaggi tragici, ma come donne, ciascuna con la propria storia e il proprio cammino. Tra una sfogliatella riccia e una frolla, offerte con generosità dall’Arcigay di Napoli, le interpreti hanno iniziato a raccontarsi.
Federica, che ha vestito i panni della visionaria Cassandra, ha spiegato di provenire dal carcere di Rebibbia, dove aveva già sperimentato il teatro con la pièce Il postino. Sul palco, la sua presenza si avverte: decisa, intensa, capace di restituire la fragilità e la rabbia del suo personaggio con straordinaria maturità scenica.
Melissa, che ha partecipato nel coro, ha confidato di essere alle prese con la scrittura di un libro autobiografico dal titolo provvisorio La prigioniera n°1, un riferimento diretto al numero della sua cella. La sua partecipazione scenica, composta ma penetrante, ha saputo tenere insieme dignità e dolcezza.
Isabella, al suo debutto assoluto in scena, ha affrontato il doppio ruolo di Elena e Polissena con un coraggio ammirevole. Ha mostrato una padronanza del testo sorprendente per un’esordiente, attraversando due personaggi opposti, la seduttrice e la vittima sacrificale, con versatilità e sensibilità.
«Per me è stata la prima volta su un palco, e non è stato facile, racconta Isabella. Ma recitare è diventato un modo per respirare, per uscire per un attimo da tutto quello che viviamo ogni giorno. Questa esperienza, per quanto piccola, è il mio modo per provare a portare un po’ di luce qui dentro. Per me, per le altre, per chi ci guarda e magari ci vede davvero per la prima volta».
Patrizia, Andromaca, è riuscita a dare corpo a una madre ferita con un’intensità che ha lasciato il pubblico commosso. La sua recitazione è stata contenuta, mai urlata, ma capace di trasmettere tutta la disperazione di una donna che ha perso tutto.
«Quando ho iniziato questo laboratorio teatrale non sapevo dove mi avrebbe portata, racconta Cinzia Mirabella. Sapevo solo che volevo e dovevo ascoltare. Ascoltare le voci di chi vive ai margini, di chi è spesso ridotto al silenzio. Le Troiane mi sono sembrate la tragedia perfetta per dare corpo e spazio a queste donne, perché parlano di guerra, di perdita, di sopravvivenza, ma anche di dignità e resistenza. Nessuna di loro è attrice, ma tutte sono state autentiche, vere, potenti. Il teatro qui non è finzione, è verità che cammina su un filo sottile, tra dolore e speranza. Dirigere questo spettacolo è stato un atto d’amore e di fiducia reciproca. Abbiamo lavorato con quello che avevamo: corpi, storie, mani che cuciono, occhi che piangono, sorrisi che resistono. A teatro si dice che tutto si può fingere, ma non la verità. E in questo spettacolo, la verità era ovunque».
Le Troiane è stata molto più di una messa in scena: è stata un grido collettivo, un laboratorio umano e creativo in cui ognuna ha lasciato un'impronta unica. In un luogo segnato dalla reclusione, queste donne hanno fatto del teatro una via di libertà, trasformando la tragedia antica in un atto politico e profondamente umano. E a giudicare dalla reazione del pubblico, emozionato, partecipe, riconoscente, è chiaro che questo grido ha colpito nel segno.
Nei saluti finali sul palco, ognuna di loro, con il rossetto rosso segna il proprio volto, simbolo potente contro la violenza sulle donne, un chiaro "no" all'abuso, simbolo di solidarietà e denuncia, visibile e immediato.