Mea Culpa è il secondo album di Giovanni Sorvillo con la sua band chiamata Tiempo Antico, formata da Salvatore Acerbo (chitarra classica, chitarra acustica), Nicola Girardi (basso), Giuseppe Vertaldi (batteria) e Mario Lupoli (Sax Baritono).
Mea Culpa contiene undici brani e ha diversi ospiti d’eccezione, infatti, Sorvillo duetta con Franco del Prete, Patrizio Trampetti, Gianni Guarracino, Vittorio Remino, Ciccio Merolla e Martina Perrotta. La produzione artistica è di Jennà Romano, leader del gruppo Letti Sfatti e la produzione esecutiva è di Vincenzo Perrotta dello Smile Centro Odontoiatrico.
Questo album viscerale è un j’accuse che Giovanni Sorvillo fa alla nostra società e all’umanità, tutti siamo colpevoli di quello che sta succedendo negli ultimi tempi.
Mea culpa è il titolo dell’album. Chi deve fare per te il Mea culpa?
«Me stesso. É il mio mea culpa, mea culpa. Mi ricollego anche al mio primo disco, con il brano “Terra Avvelenata”, è un filo conduttore con questo secondo album, se la Terra è avvelenata è mea culpa, è anche colpa mia, partendo da qui nasce il mea culpa, una strada non facile. È facile però puntare il dito verso l'altro. Credo che tutti abbiamo colpa».
Sei nato e cresciuto in terra partenopea, la patria della musica tradizionale. Quali sono state le tue più grandi influenze musicali, dove sei andato a “rubare” questi ritmi per questo tuo secondo album?
«Le mie influenze musicali le ho assorbite da quando mi sono innamorato della musica, fin da piccolo. Non ho un ricordo dove non ci sia la musica, a volte non so se scegli tu la musica o è la musica a scegliere te, questo non lo sapremo mai. Sono nato in terra atellana e le prime influenze mi sono state trasmesse dai miei maestri, James Senese, Larry Nocella, Antonio Balsamo e, quindi, i Napoli Centrale, Pino Daniele, per quanto riguarda i musicisti più vicini a me, anche come terra, linguaggio. Sono innamorato però della musica oltreoceano, di artisti come John Coltrane, Sonny Rollins parlando di sassofonisti, perché sono un sassofonista, però sono sempre “Giuvanne cu 'a chitarra”, parafrasando una vecchia canzone di Renato Carosone, ho iniziato con la chitarra. Il sassofono è uno strumento monofonico, puoi emettere una nota alla volta, non è uno strumento con cui si possa comporre, ma la chitarra, invece essendo uno, strumento armonico ti permette di comporre delle melodie».
Molti artisti incorporano una varietà di genere nel loro suono che viene naturale, ma anche la scrittura è venuta naturale per te? I tuoi testi sono molto particolari, brani ricercati, ma con quale impeto, determinazione, emozione hai scritto e hai vissuto queste canzoni. Come hai esplorato queste tematiche?
«Il testo di “Tammurriata de tiempi nire” l'ho scritto venti anni fa e mi riferivo al movimento che c'era intorno a Villa Literno alla fine degli anni ’80, quando migliaia di immigrati si riversarono lì in cerca di lavoro e, all'epoca, quando giravo, vedevo questi poveri immigrati sfruttati, mi informavo su di loro e ne uscì questo brano. Quando stavamo registrando il disco, Jennà Romano, il mio produttore artistico, mi chiese di scrivere qualcosa sull'immigrazione e gli risposi che avevo già un brano scritto ben venti anni fa. Gli recitai solo la prima quartina e lui mi disse: “Questa la dobbiamo fare assolutamente, perché è molto attuale”. E poi a Jennà gli venne l’idea di chiamare Patrizio Trampetti per fargli cantare l'inciso della Tammurriata nera, questo per dire che, passano gli anni, ma non è cambiato niente, anzi è peggiorata la situazione. Ad ogni modo, ogni brano è un mondo, c'è il brano “’A musica” e mi viene da dire che ci sono delle canzoni che descrivono loro a te, sono quelle cose che escono naturalmente. Tutte le canzoni che ho scritto, in tutto questo periodo, partono soprattutto dai ricordi. Ad esempio, “’O Re do sole”, l'ho dedicata a mio padre che ho perso tre anni fa. Un testo molto vero, genuino, come il racconto sul giardino dove mio padre seminava di tutto. Ripeto il tutto nasce soprattutto dai ricordi e poi la musica è nell'aria, nessuno la può afferrare».
Hai citato il brano ‘O Re do sole che si sposa bene non proprio con un musical, ma potrebbe andare bene per colonna sonora…
«Già altre persone me lo hanno detto. In questo brano c’è anche il magnifico assolo di Gianni Guarracino, lo ha proprio ricamato».
Oltre a Guarracino, molti altri artisti hanno collaborato al disco. Hai saputo bene mettere insieme queste commistioni artistiche…
«Sono molto onorato di questi artisti, Franco Del Prete, Vittorio Remino, Patrizio Trampetti, Ciccio Merolla e poi c'è anche la piccola Martina Perrotta con cui abbiamo fatto “Quercia regina”. Martina ha 14 anni ed è una mia allieva di sassofono e, quando ho sentito la sua voce, mi ha molto interessato e la ritengo più giusta per questo brano. Se chiamavo una cantante professionista per questo brano, non faceva lo stesso effetto, perché le cantanti vogliono sempre far vedere che sanno cantare ed io la ritengo una cosa negativa. Per me esistono due categorie di cantanti: chi vuol far vedere che sa cantare e chi cerca di far uscire la parola fuori, quello m’interessa molto, come i cantautori, perché la parola si deve sposare con la musica».
Hai messo insieme tutti questi musicisti. Ritieni che i musicisti siano i custodi della cultura e della tradizione. Tu ti ritieni custode della cultura e della tradizione napoletana?
«Credo che la tradizione non muore mai, essa vive dentro di me. Come faccio a non essere preso dalla tradizione che, poi, mi appartiene. A me piace partire dalla tradizione per sviluppare un linguaggio più evoluto».
Può una canzone cambiare qualcosa? I musicisti sperano che questo accada…
«La speranza è antica, come si dice, è l'ultima a morire. Non solo una canzone, ma mille, milioni e io spero che possa cambiare qualcosa. Cambiare significa che ognuno, ritorniamo al titolo, deve dire è colpa mia, perché se partiamo così, magari ognuno inizia a fare una cosa più positiva. Torno sempre su quel tasto lì. Quando sto nel traffico e vedo una coppia avanti che hanno una bambina dietro, in macchina, e il papà apre un pacchetto di sigarette, prende la carta e la butta fuori, per me ciò è negativo e, quindi, mea culpa, mea culpa, la colpa è nostra, di tutto. Comunque, magari una canzone potesse cambiare, descriverei di più ogni giorno, qualcosa che potesse cambiare l'umanità, le persone, nel senso che, ognuno, individualmente, non dico debba cambiare, ma migliorare».
Parliamo della registrazione del disco, hai suonato in presa diretta dal vivo? Non ci sono molti campionatori…
«Poco, ma credo più nell'anima di suonare le cose, la registrazione è venuta bene, c’è anche l’ottimo lavoro di Vittorio Romino al mastering e siamo molto contenti. Il disco è uscito da poco, abbiamo fatto alcuni live di presentazione, il prossimo sarà domani 18 maggio a Sant'Arpino e verranno tutti gli ospiti che sono nel disco. A parte l'amicizia, mi stanno onorando perché mi dicono che ho fatto un ottimo lavoro e questo mi lusinga molto».
Tiempo Antico, com’è nato questo nome, qual è la sua origine?
«Prima di tutto il suono mi piacque molto. Tiempo antico è il nome della band, infatti, il primo disco è uscito con il nome Tiempo Antico, adesso è uscito l’album Giovanni Sorvillo & Tiempo Antico, ma è la stessa cosa, perché sono io l'autore, il compositore, il cantante eccetera. Con i miei musicisti che ci tengo a nominare, i miei fratelli, suono da 35 anni e oggi è difficile rimanere ancora insieme dopo tutti questi anni, eravamo ragazzini e ciò mi emoziona sempre, poi avendo fatto il secondo disco con le mie canzoni mi onora ancora di più. Ad ogni modo, non è solo del suono che mi piace molto, ma Tiempo Antico significa il tornare indietro, andando avanti, perchè indietro ci sono delle cose buone da prendere, anche musicalmente. Se fai un viaggio a ritroso, la musica buona sta più prima che oggi. È il vedere un oggetto antico che sembra moderno, eppure è antico, quindi, è un po' questo tornare indietro, ma guardare avanti».
Cosa significa “Sà paciugat”, che dà il titolo a una canzone dell’album?
«É una parola romagnola. Sono legato alla Romagna, perché la mia compagna è romagnola. Il mio primo disco si chiama “Cadebè” ed è anche una parola romagnola, significa “Casa del bere”. Questi suoni m’incuriosiscono e mi piacciono molto. Una volta stavo a casa di mio cognato in Romagna e lui, all'improvviso, dice Sà paciugat, e gli chiedo: “Cosa hai detto, fammi sentire di nuovo questo suono, mi piace molto”. “Sà paciugat”, ripete. “Ma cosa significa?”, “Significa cosa stai paciugando, cosa stai pasticciando”. E gli dico: “Se Dio mi benedice devo scrivere un brano con questa espressione.” È chiaro che il brano è enigmatico, inizia dicendo “Sì lo so, tu sei come me, ma io sono un animale. Sì lo so nun t’aggio visto mai, ma tu chi si”, tutto ciò anche pensando a qualche politico. Sà paciugat in napoletano, significa: “Ma che stai cumbinanne?” Cosa stai combinando?.
Se dovessi definire un personaggio è uno che fa del male, questo è il senso della canzone. L'inciso che dice che dobbiamo tenerci forti, tu ti devi tenere forte, inteso un tu generico. Tu ti devi tenere forte, tieniti forte a me, perché io mi devo tenere forte, specialmente oggi mi devo tenere ancora più forte, perché è così, sennò il sistema ti schiaccia, anche se già ci schiaccia, però io un'alternativa la devo tenere e quella è la musica, fortunatamente. Poi ebbi l’idea di chiamare Ciccio Merolla, volevo delle percussioni forzute e poi Ciccio è un animale da palco, infatti, lui quando venne a registrare il pezzo, come scese dalla macchina, mi disse: “Il brano è bellissimo. Ho lavorato e studiato”. Sapeva il brano a memoria, ha perso più tempo a montare gli strumenti che a registrare il brano».
Parliamo del brano “Canapa”, a cosa ti riferisci?
«Abbiamo parlato di tradizione, la canapa era la nostra terra, il nostro lavoro e ci hanno tolto tutto. Ci dovrebbero dare tutto indietro, noi avevamo la canapa con al quale si possono fare tantissime cose, adesso sta ritornando un bel po' anche al centro nord. Sempre partendo dai miei ricordi, ho i miei 53 anni, di quando ero piccolo e mi ricordo di Marcianise. “Senza soldi e ne petrolio questa canapa mi consola, cu ‘na pasta e ‘na lenzola”, con la canapa si fa tutto, però alla fine ce l’hanno tolta, ma non solo nell’agro atellano o Frattamaggiore ma in tutte le zone in cui si lavorava, avevamo tutto, dei frutti bellissimi, era la “Terra Felix”, ora è diventata la terra della puzza e della “monnezza”».