Un'atmosfera densa di emozione nella sala Cinese della Reggia di Portici, dove il geniale regista americano Bob Wilson ha incontrato il direttore artistico Ruggero Cappuccio del Campania Teatro Festival prima dell’ultima replica di "Ubu".
Questo spettacolo, ispirato al celebre testo di Alfred Jarry del 1896, offre una critica acuta alla guerra e al totalitarismo, temi, oggi, di scottante attualità.
Wilson, con la sua visione unica, trasforma l’azione sul palcoscenico in un’opera d’arte visiva, evocando l’universo di Joan Mirò e la potenza dirompente del teatro dell’assurdo e surrealista.
Bob Wilson, il cui lavoro è stato descritto dal New York Times come una fusione di tempo e spazio in un arazzo di immagini e suoni, ha affermato: "La luce è l'elemento più essenziale del teatro". Infatti, la conversazione ha rivelato il pensiero profondo del regista sull'importanza della luce nella creazione scenica, paragonandola a un “romanzo visivo” che non solo guida gli attori, ma incarna l’essenza stessa della narrazione. "Io parto dalle luci", ha dichiarato con convinzione, affermando che non vi è spazio, senza luce, che essa plasma e modella l’azione in cui prendono vita scenografia e costumi.
L'eco delle parole di Ruggero Cappuccio ha aggiunto un ulteriore strato alla conversazione. Cappuccio ha sempre pensato che il teatro è una forma di psicanalisi al contrario, in cui il regista e gli attori non interpretano, ma sognano collettivamente, permettendo al pubblico di riflettere e sognare a sua volta. Wilson ha confermato questa visione, affermando: «Il mio teatro è un teatro non interpretativo. L’interpretazione non fa per gli attori, né per i registi, né per gli scrittori. Il mio teatro consiste nel dire quello che è e nell’interrogare soprattutto che cos'è ciò che sto facendo, perché se io già so cosa dico e cosa faccio, a quel punto non avrebbe senso fare teatro. L’idea che ho è di chiedermi ogni volta: “Cosa sto dicendo e cosa sto facendo quando faccio teatro?”. Ho imparato il testo dell’Amleto (recita una parte) quando avevo dodici anni e non deve essere interpretato. Shakespeare è talmente denso, ricco, pregno di significati che attribuirne uno solo, provare a interpretarlo, significherebbe negare tutte le altre possibilità e visioni. Ci esorta sempre a essere aperti, ad accogliere tutti gli esempi. Io ho ottantadue anni e ancora so recitare il testo di Amleto; lo leggo spessissimo e ogni volta mi sembra diverso. Ogni verso mi sembra diverso. Se leggete Amleto una sera, avete una visione; ma già la sera dopo sarà completamente diversa. È ricchissimo di significati. Alice nel Paese delle Meraviglie, la conoscete? Alice era con il millepiedi, che dice ad Alice: “Ogni cosa che puoi pensare, ogni cosa che puoi vedere è vera, e il piatto è scappato con un cucchiaio”».
La grandezza dell'opera di Wilson sembra risiedere nella sua capacità di evocare un'esperienza estetica pura, ipnotica nella sua essenzialità, in cui ogni spettatore è incoraggiato a trovare il proprio percorso interpretativo seguendo le proprie sensazioni, assecondando la propria sensibilità. Wilson ci incoraggia, infatti, a “perderci” senza aver paura, ad esperire le cose del mondo senza pretendere ostinatamente di scorgerci un significato delineato chiaramente, bensì imparare a riconoscerlo nel nostro sentire.
"Ubu", un'opera che si erge come decisa e irriverente critica alla guerra e alla prepotente prevaricazione dei poteri dispotici, continua a risuonare con preoccupante modernità. Nella messa in scena di Wilson, i temi universali del potere e della disuguaglianza emergono attraverso uno spettacolo visivamente ipnotico, dalle fattezze oniriche, come un sogno che, violento, prende vita sul palco.
La performance, che dura 50 minuti, è stata realizzata da una compagnia eterogenea, i cui movimenti, ma anche l’immobilità, erano pregni di un magnetismo che lascia senza fiato, in grado di catturare l'attenzione del pubblico, compresi alcuni giovanissimi spettatori che hanno assistito all'intero evento con raptus di meraviglia, la cui attenzione desta e costante costituisce “il complimento più grande che potessi ricevere”, afferma Wilson.
Oltre a romanziere della luce, Cappuccio descrive Wilson anche come romanziere del silenzio ricordando, infatti, suoi spettacoli in cui il silenzio era l’elemento centrale: «John Cage, compositore, filosofo e grande artista, soleva dire che non esiste il silenzio. Ascoltate. (Bob Wilson resta in silenzio per qualche secondo per far ascoltare il silenzio). Questa sequenza è incredibile, non si potrà mai vedere; l’unica cosa costante è il cambiamento. Se ascoltiamo il silenzio e poi iniziamo a parlare, il suono continua, in pratica finché non ce ne andremo, perché ascolteremo sempre il nostro cuore che batte, possiamo sentire il nostro respiro; il suono è sempre presente. Se siete amanti di Giuseppe Verdi, c’è l’Otello, che è un’opera che inizia con una tempesta, in modo tumultuoso nell’incipit, e il suono permane. Se, invece, non ascoltiamo il silenzio quando comincia l’opera di Verdi, è come se in qualche modo si rompesse un po’ la linea. In teatro non c'è soluzione di continuità; non si può iniziare e finire alcunché. È un continuum, una linea. Ora parlo, ora no. C'è ancora suono. Vedete, è stata un’unica linea, un continuo, un verso unico che proseguiva quando finivo».
»Qualche anno fa - continua Bob Wilson - ero all’università di Yale, al corso di lezioni di teatro, ed ero presente per una lettura. Così chiesi loro di recitare Amleto, e urlarono assolutamente no! È come in TV, dove il messaggio arriva ogni due o tre secondi, no? Hai capito? Hai capito? Hai capito? È un inizio e un fermarsi ogni tanto. Una volta chiesero a Einstein: “Dottor Einstein, può ripetere ciò che ha appena detto?”. “Non c'è bisogno che io ripeta ciò che ho detto, perché è sempre lo stesso pensiero”. In realtà, questi attori di Yale, formati per la televisione, dove è necessario che si capisca tutto, ogni secondo. E invece no, va bene anche non capire ogni volta. Anche in romanze bellissime, a volte, si perde il filo; va benissimo. Anche un attore sul palcoscenico non deve essere sempre sicuro di comprendere tutto in ogni momento; può anche perdersi un attimo. Abbiamo così paura di perdere il filo. Ascoltiamo gli uccelli: ci devono dire qualcosa? Venendo qui in macchina stasera, ho goduto del tramonto, del sole che si estenuava, in questa luce meravigliosa. Doveva dirmi qualcosa? C’è un messaggio particolare? È qualcosa che ho vissuto, che ho provato. I colori erano cangianti. È questo ciò che intendo quando dico che la superficie va mantenuta semplice. In realtà, come dire, sono cose che alla fine mi è piaciuto vedere, osservare».
Il regista ha anche risposto a domande riguardo alle sue scelte sceniche, come quella di utilizzare costumi realizzati con fogli di giornale di quotidiani locali, dando voce a una riflessione sull’arte e sulle risorse: «Perché costa poco. Abbiamo realizzato quest’opera con un budget molto basso. Abbiamo deciso di usare i giornali per i costumi, per il trucco, ecc. perché non avevamo soldi. Qualche volta, quando non si hanno soldi, si hanno buone idee. Era anche un problema che avevamo con la scuola; io, tra l’altro, mi sono sempre impegnato e interessato fin dall’inizio della mia carriera. Fin da quando ero molto giovane, ho cominciato come insegnante e una volta ho chiesto di organizzare un programma di formazione in una rete di centri sia in Nord America sia in Sud America. Avevamo ricevuto dei fondi dalla Rockefeller Foundation per realizzare un corso per bambini e adulti destinato a materiali per attrezzi, seghe, martelli, chiodi, ecc. Però non sono arrivati, mentre i bambini sì. Si dovevano realizzare delle sculture per questo programma e qualcuno cominciò a dire di cancellarlo, visto che non erano arrivati gli attrezzi e il materiale per realizzare queste sculture. Poi la Rockefeller Foundation ebbe un’idea su come fare queste sculture. Per esempio, se vuoi realizzare un tavolo che deve essere un metro di lunghezza e tre metri di larghezza, o forse meglio il contrario, ti serve un metro. Ma in realtà non ci serve per forza un metro; puoi anche usare il palmo della mano o una corda. Per mettere insieme due assi di legno, non ci serve per forza un martello e dei chiodi; ci sono altri modi per assemblarli, puoi anche usare un’edera o erbe rampicanti. C'era un'idea principale che non aveva nulla a che vedere con come farlo, però si impara facendo. Alla fine siamo andati avanti, il materiale ci serviva e siamo andati in una discarica e abbiamo trovato tutto ciò che ci serviva per la scultura. Comunque, per rispondere alla domanda, sì, abbiamo deciso di fare i costumi con la carta dei giornali locali perché non avevamo soldi; come nel caso della scultura, ci siamo organizzati. Quando mancano le risorse, c’è sempre l’immaginazione che viene stimolata».
Un’altra domanda interessante fatta da Cappuccio è stata sul pensiero di Susan Sontag che dice che la profondità è nella superficie. Ma quanto è difficile creare superficie a teatro?
«Pensate al corpo umano, costituito da strati - risponde Bob Wilson. Abbiamo la cute, la pelle, insomma l’epidermide, e sotto la carne ci sono le ossa. Il mistero, come diceva anche la Sontag, è nella superficie, ma ciò che rende attraente e interessante la pelle, la superficie, è proprio ciò che c'è sotto: la carne, la sostanza e l'osso. Perché ci piace così tanto la serie di ritratti di Marilyn Monroe di Andy Warhol? Semplice: è una dea. Tra cinquecento anni sarà ancora una dea. La superficie deve essere sempre semplice e accessibile. Nel caso di Marilyn Monroe di Andy Warhol, se ci troviamo in Africa, in Cina, nella giungla amazzonica o in Alaska tra gli eschimesi, tutti sanno chi è Marilyn Monroe; sarà sempre Marilyn Monroe. La superficie è accessibile. Pensiamo a Medea: è una donna straniera, magari della Turchia, che va in Grecia, si innamora di un uomo che la lascia per una donna più giovane. Lei ha due figli che, per vendetta, uccide e poi scappa su un carro dorato. E poi Re Lear? Un uomo che, all’inizio, divide il suo regno e, nel verso centrale, rinuncia a tutto, si allontana in preda alla pazzia, e trascorre il suo tempo nella natura. Una storia, tutto sommato, semplice, perché in realtà tutte le grandi storie in superficie sono semplici, ma sotto ci sono molte complessità. Amleto, anche in un certo senso, è una storia semplice, ma lui è un prisma di molte sfaccettature, che rappresenta l’identità della persona. Io ho fatto l’Amleto qualche anno fa; è importante che la superficie sia semplice e accessibile. Dico sempre che ci dovrebbe essere un bambino tra il pubblico. Un bambino che non sa nulla di teatro, di Shakespeare o di Amleto, ma deve poter venire a teatro, assistere, fare un’esperienza, provare qualcosa. Ubu è un testo del teatro dell’assurdo, che estrae l’assurdo; è curioso che il pubblico stia lì tranquillamente ad ascoltare cose che non hanno davvero un senso logico, sono nonsense, eppure rimangono seduti molto tranquilli. E devo dire che questo pomeriggio, davanti a me, c’era una bambina che è rimasta seduta per tutto lo spettacolo, con un’attenzione rapita. Un complimento migliore per me non lo posso immaginare. Una ragazzina nel pubblico che guarda le immagini e ascolta i suoni significa che lo spettacolo era accessibile per lei, al suo livello».
La conversazione ha toccato poi temi più intimi, con Wilson che, aprendo una piccola finestra sul suo mondo, ha narrato dell’incontro casuale con un giovane sordomuto nel 1967, quando il teatro non faceva ancora parte della sua vita, in un racconto che a piccoli tasselli rivela la reale portata dell’evento, ovvero quella di un incontro fatidico, che irrevocabilmente modifica il corso della sua esistenza e della sua carriera. "Il corpo può udire", ha detto, sottolineando come il teatro, per lui, sia un incontro di profondità, di vibrazioni e silenzi strutturati, piuttosto che solo parole e azioni.
L’incontro è stato punteggiato da riflessioni profonde e da aneddoti rivelatori che hanno messo in luce non solo la genialità di Wilson come artista, ma anche la sua umanità e la sua curiosità nei confronti del mondo. È chiaro che Bob Wilson non è solo un grande direttore artistico, ma un vero e proprio esploratore dell’animo umano, capace di plasmare luce, silenzio, suoni e fisicità in una forma d’arte senza tempo.