
Foto di Francesco D'Acunzo
La cantastorie Dada' sta reinventando il panorama musicale con un suono che mescola tradizione e innovazione, sfidando tutte le convenzioni. Gaia Eleonora Cipollaro, in arte Dada', è un'artista che continua a riscrivere le sue radici e la sua musica, mescolando il cantautorato napoletano con la musica elettronica e la world music. Ascoltando le sue canzoni si ha la sensazione di una felice familiarità, un déjà vu, come se conoscessi queste storie, alcune di esse intimamente, perché fanno parte del tuo vissuto e del tuo quotidiano, come quei racconti popolari alla Basile, e non c’è una parola sprecata, non una parola fuori posto. Altre canzoni, altre storie, invece, ti stupiscono per loro originalità e unicità.
Recentemente, Dada' ha avuto l'onore di aprire la mostra Dipingere il paesaggio al Museo Emblema di Terzigno, un progetto espositivo curato da Renata Caragliano ed Emanuele Leone. Organizzato dalla Veragency, un live in trio acustico con Alessio Busanca e Pasquale di Lascio, portando la sua musica radicata nella tradizione napoletana, ma orientata verso suoni e atmosfere intimistiche e jazziste.
Partiamo dai tuoi testi, che sono caratterizzati da una forte ironia, molto tipica della tradizione napoletana. Da chi prendi ispirazione per questa ironia? Forse dalle zie o dalle nonne?
«La mia massima ispirazione è il popolo, nel senso che dico sempre che sono andata con il culo nel paniere, quindi è da lì che prendo un po' tutto, dalla vita quotidiana dove sono cresciuta tra modi di dire. Dico sempre che mi sono accorta di parlare due lingue quando la nonna mi ha detto “levato ‘a lloco ca piglie pede!” (prende fuoco), da vicino alla macchinetta del caffè. Io mi sono guardata i piedi, perché per me pede erano i piedi, invece ho dovuto imparare che c'è tutta un'iconografia linguistica napoletana. Ed è da lì che prendo la materia più viva dei miei testi».
La tua musica è spesso accompagnata da elementi di arte e moda, con una forte componente scenografica. Questi aspetti sono frutto della tua creatività personale o ti avvali della collaborazione con qualche crew in particolare?
«Mi è sempre piaciuto giocare, quindi, quello che facevo da piccolina ho semplicemente l'opportunità di farlo come lavoro, quindi è una cosa bellissima. Sono, come si dice oggi, art director di tutto il mio progetto e ho avuto la fortuna di essere affiancata, ad esempio, dalla fashion designer Daria D'Ambrosio, che riesce con i suoi abiti ad incorniciare tutto questo mondo, le mie idee, e riusciamo, per fortuna, a pizzicare un po' questi ambiti che hai nominato».
Ti capita di disegnare anche gli abiti? C'è qualcosa di particolare che hai creato in prima persona?
«Prettamente li disegna lei, Daria D'Ambrosio. A me piace dipingere che quanto riguarda disegnare, disegno quello che poi saranno i miei videoclip, cioè la scenografia che mi abbraccerà. Molte me le costruisco anche da sola, quindi mi piace molto disegnare, dipingere».
A Natale scorso sono uscite queste tavole ispirate alla smorfia napoletana. Cosa rappresentavano e qual è quella che ti è sembrata più particolare? Mi sembra di ricordare anche un nudo...
«Sì, esatto. Abbiamo ripreso dei numeri della smorfia napoletana, è impossibile rappresentarli tutti, però li abbiamo voluti riprendere con una chiave “meno maschilista”. Nel senso che io da piccola giocavo felicemente a tombola, ma nei tabelloni vedevo che c’era sempre questa sessualizzazione sicuramente spietata, molto napoletana. Però abbiamo voluto infilarci dentro una quota femminile che potesse giocare anche lei, un po' più libera, più padrona. Abbiamo rappresentato con Attilio Cusani, Sara Ricciardi e Dalia D'Ambrosio queste icone, ad esempio ‘o culo, oppure ‘a jatta, ‘a maraviglia, ‘a capa, che abbiamo voluto rappresentare con un gambero con la testa mozzata. Quindi, in una chiave non prettamente napoletana, ma perché la smorfia è un modo per interpretare la vita molto più largo».
Tra i tuoi lavori, anche quello legato alla smorfia, hai mai pensato di organizzare una mostra o qualcosa di particolare per esporli? C'è qualche progetto in mente?
«C'è sempre l'idea, nel senso che raccolgo sempre il materiale che poi vibra intorno ai miei progetti e sicuramente sarebbe un mio sogno quello di poter esporre, in quanto mi sento sempre stretta tra le etichette, i ruoli, le identità. Mi piace dire che sono una cantastorie, poi quello che viene, la storia può essere raccontata anche attraverso un'immagine».
Le storie che racconti sono fortemente legate alla tradizione popolare, ai vicoli, ai quartieri, a personaggi come Gianna o la 'capera' Leonilda. Come nascono questi 'inciuci' e queste storie?
«Io rubo i personaggi, nel senso, vedo un vecchietto camminare per strada, conosco una persona, poi ci ricamo intorno quello che sento e poi cerco di rappresentare. In realtà, forse è tutto molto autobiografico, cerco di rappresentare il mio interno, ma anche l'interno collettivo, che sicuramente sembra molto napoletano, perché scrivo in napoletano, ma l'inciucessa c'è in tutto il mondo».
Storie che potrebbero anche diventare un libro, un racconto romanzato?
«Sì, sicuramente sono racconti. Sono sempre stata affascinata da Esopo in particolare, da molti cantastorie. Dietro a questo mondo, anche l'ironia, che prima dicevi che è molto forte nei miei testi, è qualcosa che mi affascina tantissimo. Ad esempio, sono molto affascinata da Carosone, perché ha sdoganato il fatto che l’arte debba essere seriosa e non seria, che è diverso. Ci si può essere seri, diciamo, quanto in alcune canzoni posso usare termini, ad esempio, come paposcia, cose che fanno parte delle storie cui racconto».
Studi il napoletano e c'è un'attenzione particolare alla grammatica, al vocabolario, ecc. Quando scrivi, ti avvali di un dizionario o di altre risorse?
«Cerco di fare molta attenzione grazie ai testi di poeti e scrittori. Per fortuna ho ricevuto anche una benedizione da alcuni professori di napoletano. La lingua napoletana, per quanto difficile, non è possibile seguire sempre alla perfezione, la correttezza, si parla più di essere adeguata. Il lettore deve capire quello che viene scritto in dialetto. Quindi è una lingua aperta, ma ha delle sue ragioni di comunicazione».
La tua musica elettronica ha una forte impronta napoletana, con ironia e sonorità tipiche. Come hai sviluppato questo stile? Da dove nasce e come si è evoluto nel tempo?
«In realtà, da piccola volevo fare musica classica, e sognavo di diventare una concertista classica, magari suonando la “chitarrella”. Poi ho cominciato a scrivere canzoni e sono stata deviata sulla strada opposta. Ho smesso di frequentare ambienti accademici perché sentivo di dar vita alla mia creatività che, secondo me, non ha bisogno di troppe geometrie. Mi piace ascoltare musica di tutti i generi, e alla fine mi sono trovata a lavorare con artisti diversi. Quindi, il piatto che ho preparato è stato sicuramente contaminato dalle esperienze e influenze di tanti mondi diversi».
La tua musica è davvero unica, specialmente in Italia. Ti senti una voce unica, in qualche modo?
«Grazie, su questo posso dire che ho trovato la mia strada in un modo che sento profondamente mio».
Stai preparando un nuovo album o un progetto in uscita?
«Sicuramente c'è una cosa molto grande in vista».
Ah, perfetto! Allora ne riparleremo quando sarà il momento giusto.