Wrongonyou, con il suo primo album Rebirth, si spinge oltre i confini nel perseguimento della più autentica auto espressione artistica, con una dedizione risoluta di riflessione, introspezione; scuro e sincero, ma mai stucchevole; malinconico, ma non senza un ottimismo sfocato.
Il cantautore romano Wrongonyou, all’anagrafe Marco Zitelli, inizierà il suo tour estivo dal Castello Sforzesco di Milano, un appuntamento che s’inserisce nella rassegna Estate Sforzesca, special guest per un set inedito sarà Dardust, aka del compositore e pianista Dario Faini, che unirà la musica del suo pianoforte alla voce del cantautore.
La sua canzone “Family Of The Year” è stata scelta da Real Time come colonna sonora della Pride Week di Milano.
Rebirth, che cosa rappresenta per te e che significato dai alla parola?
«Diverse persone mi hanno detto che Rebirth, rinascita, è un titolo da secondo disco, più che da primo. Nella mia vita personale ci sono state vicende che mi hanno avvilito molto e cantare la canzone Rebirth ha fatto scattare qualcosa in me che mi ha aiutato e risollevato, quindi, per me è stata un’effettiva rinascita. Tante volte, quando parlo di me al passato, mi sembra di parlare di un'altra persona e non di me stesso. Questo è il significato che ho voluto dare ed è così importante per me questa canzone che l'ho voluta far diventare la title track.»
Foto Michele Piazza
La tua musica è internazionale, ma lo è anche il tuo timbro di voce. Che cosa succede quando il pubblico ti sente parlare in italiano. Subisce uno shock?
«La maggior parte dei messaggi che mi arrivano, cominciano con “Ciao, non credevo fossi italiano”, e poi partono una sfilza di complimenti cui sono molto grato. C'è sempre questo confronto con il cantare in italiano, sono molto contento dei risultati che mi stanno arrivando sia di numeri sia di pubblico che viene ai miei concerti, ho collezionato parecchi sold-out quest’inverno, incredibile, ma di quello che mi lamento, è che se sei italiano e canti in inglese vieni penalizzato e non lo riesco a concepire. Ascoltiamo qualsiasi cantante inglese, tipo Ed Sheeran che fa sold out nei palazzetti in Italia e non capisco la differenza, purtroppo c'è quest’idea fissa in Italia. Ad ogni modo, molte persone mi dicono che è bello che ci sia in Italia un talento che potrebbe andare all'estero e non dall'estero venire in Italia, com’è sempre stato.»
Da quanto tempo fai musica?
«Ho iniziato a suonare la chitarra, abbastanza tardi, al liceo. Suonavo metal poi ho scoperto altri generi musicali, tra cui il folk.»
Quali sono i tuoi luoghi preferiti e meno favoriti per esibirti dal vivo?
«Uno dei concerti più belli che ho fatto è stato sicuramente quest’inverno all'Auditorium di Roma, una grande soddisfazione fare sold out in prevendita, ma soprattutto esibirmi all'interno di una cornice teatrale, al buio, con il pubblico composto, soprattutto interessato al concerto. Senza dubbio mi piacciono anche le grandi location, però sono più dispersive, il pubblico magari non sta lì per la mia musica, ma tanto per far numero. Gradisco le situazioni leggermente più piccole, non il pub sicuramente, ne ho fatti una marea, però club più piccolini, dove si riesce a coinvolgere la gente. Certo non disdegno suonare in un'arena o in uno stadio, mi auguro di farlo più avanti.»
Quando ti esibivi nei pub cosa cantavi?
«Ho cominciato con un gruppo di cover dei Metallica, ho fatto la classica gavetta di qualsiasi altro musicista, pian piano calmandomi ho fatto la cover band dei Red Hot Chili Peppers e mi sono diretto verso il pop. Da lì ho iniziato con delle band che scrivevamo pezzi inediti originali, una rock italiano e un'altra funky, fino ad arrivare a essere solista. Non per essere egocentrico ma per libertà artistica, così da poter esprimere al massimo quello che volevo, infatti, le prime soddisfazioni sono arrivate subito dal momento in cui mi sono messo a fare quello che mi diceva non tanto la testa quanto la pancia, il cuore, essendo musica più sincera, sicuramente ha facilitato il modo di arrivare alla gente.»
Family of the Year è stata scelta per il Pride Week di Milano, anche perché accompagnata da un video molto particolare. Che importanza dai a questo video e, soprattutto, a questa scelta?
«A me ha fatto molto piacere che è stata scelta questa canzone di rappresentanza, mi dispiace che la gente, in generale, si è molto soffermata che, nel video, ci sono due famiglie omosessuali che hanno bambini, ovvero due gay da parte di maschi e due lesbo da parte di donne, ma questo è un problema di globalizzazione, perché troppo filtrato, è stato associato come un video a favore dei gay, c'è anche quello, ma non solo. Ciò che volevo dire è che l'amore si può trovare in qualsiasi tipo di famiglia, non per forza di sangue e non per forza standard. Sulla scena in cui c'è la famiglia tradizionale, uomo donna e figli, c'è l'uomo che picchia la donna, ma nessuno ha detto nulla, ma solo cose a favore o insulti riguardo alle coppie omosessuali o lesbo, non capisco perché. Della globalizzazione prendiamo gli skateboard, le Bmx, la coca-cola, i cappellini da baseball che indosso anch'io, tutti i marchi o le mode straniere vanno bene o artisti stupidi che creano canzoni composte solo da versi vanno bene, perché questo no? Il matrimonio gay è stato approvato, l'unione fra due uomini e due donne è stato approvato, il peggio e le cose più futili vanno bene e questo no. C'è una restrizione a livello d’ignoranza, ma non uno che non sa le cose, ma la voglia di non evolversi. L'unione è una cosa libera, va bene in qualsiasi forma purché sia amore. L’odio in qualsiasi forma va bene, è accettato e non fa più tanto nemmeno impressione, invece, l'amore sì.»
Parliamo di Son of Winter. Tu descrivi delle storie che sono vicino a te o immagini esistano?
«É una canzone che non parla di me, ma di tutti in generale. Parla di non aspettare a fare le cose che si amano, di non aspettare di mettere da parte le cose ma di farle sul momento. Son of Winter, come l'ho vista io, parla di un uomo sul letto di morte e parla a un’ipotetica figlia o nipote o moglie, in cui si pente di non aver fatto o visto le cose belle nel mondo o di fare cose che ha amato e gli chiede perché non mi racconti delle cose belle che ci sono nel mondo. È una persona che non ha avuto nulla emotivamente, magari aveva una barca di soldi, però non gli è restato niente dentro.»
Tu hai qualche rimorso o rimpianto?
«Direi di no. A livello sociale, solo quella classica scena in cui dovevi dire qualcosa e ti viene in mente il giorno dopo e ti mangi le mani dicendo potevo dir quello. Fortunatamente no, sto cercando di fare nel modo spontaneo e naturale tutto quello che sia giusto fare.»
Foto Michele Piazza
Che cosa canterai nel tour, tutte le canzoni dell’album Rebirth o hai penalizzato qualcuna e se proporrai qualche inedito?
«Il disco lo propongo tutto, più qualche brano dell’Ep precedente, The Mountain Man, per adesso non canterò nessun inedito, ma una cover che faccio sempre e che amo, I'm on fire di Bruce Springsteen, cui sono legato moltissimo, perché i miei genitori avevano la musicassetta in macchina, ero piccolino e quando partiva quella canzone mi assortivo, mi è sempre rimasta impressa e me la porto dietro da tantissimi anni.»
Ti sei mai proposto ai Talent o non t’interessano?
«Sinceramente, ogni anno mi chiamano e mi chiedono se sono interessato a partecipare ai vari X Factor, The Voice e altro tipo di talent. Personalmente vedo i talent come un’ultima spiaggia, cioè, ora sto lavorando duramente per impegnarmi e cercarmi di sfondare senza l'aiuto della televisione, purtroppo gli artisti che escono dai talent, a parte alcuni, hanno la vita artistica molto corta. Vedo i talent come un’ultima spiaggia, perché solo dopo averci provato e dato il massimo, uno decide di partecipare a un talent, che dà la possibilità di arrivare a milioni di persone in un istante, senza dover far troppe fatiche, troppa gavetta e cerca una scorciatoia tramite la televisione, ovvio, che anche lì è un mondo durissimo, non dico che entri e spacchi e sfondi, però se mai dovessi partecipare a un talent lo farei proprio come ultima cosa.»