
Con Finale (un'ouverture), in scena in prima nazionale al Teatro Bellini di Napoli fino al 19 ottobre, la compagnia berlinese celebra il suo 30° compleanno con il pubblico, firmando uno spettacolo che è insieme testamento, rinascita e abbraccio.
Le origini dei Familie Flöz affondano nel 1994 all'Università delle Arti Folkwang di Essen, culla tedesca del teatro fisico, dove Hajo Schüler, Markus Michalowski e Michael Vogel diedero vita a un linguaggio nuovo, fondato sulla potenza del gesto e sull'espressività del silenzio. Il loro primo lavoro, Über Tage , era un omaggio alla cultura mineraria della Ruhr: Flöz, in tedesco, è infatti lo strato di terra che custodisce le materie preziose. E di materia preziosa, da allora, i Familie Flöz ne hanno portata molta sul palco. Da Ristorante Immortale a Teatro Delusio, da Hotel Paradiso a Infinita, ogni spettacolo è stato una tappa di un viaggio nel mistero dell'esistenza: nascita, amore, fallimento, morte, raccontati senza una sola parola, ma con un'intelligenza poetica che ha conquistato platee in oltre quarantacinque Paesi.
Finale non comincia quando si spengono le luci. Comincia prima, mentre il pubblico prende posto in platea e in galleria, quando gli attori invitano gli spettatori a salire sul palco, a mostrare e indossare maschere, a condividere lo spettacolo. Un gesto semplice, ma profondissimo: il teatro come specchio della vita, dove ogni volto può diventare simbolo, ogni corpo racconto.
Durante l'incontro al Bellini, l'attore Mats Suthoff spiega: «Tutti dicono che la maschera è magica. Noi pensiamo che la magia accada sotto, nel movimento. Il pubblico proietta la propria immaginazione nella maschera. Il pubblico è il 50% del nostro spettacolo». Gianni Bettucci, tra i veterani del gruppo (ventisei anni di tournée con loro), aggiunge: «Le maschere vivono nella testa dello spettatore. Per questo collegamento rompere la parete invisibile tra noi e chi guarda. Finale nasce da questa volontà di condivisione».
E in effetti, al Bellini si percepisce un'energia comune, un respiro unico che unisce platea e palcoscenico in un rito collettivo. Sul palco si intrecciano tre vicende, tre piccoli e toccanti universi, collegati da una misteriosa narratrice: il proprietario di uno Späti (negozio di cibo da asporto) in città, lotta altruisticamente per i suoi clienti, finché il suo passato non lo raggiunge. Un figlio perde l'equilibrio quando la madre si ammala gravemente. Una giovane donna cerca la solitudine nella foresta per cercare sé stessa, e trova più della semplice pace con la natura. Tre storie di vita sulla soglia del cambiamento. Tragicomiche. Poetica. Profondo. Piccole storie quotidiane, che si fanno archetipi universali. Come spiega l'attrice Lei-Lei Bavoil : «Ci interessano le interazioni semplici, preparare un caffè, accompagnare qualcuno che ami in ospedale. La maschera rende questi gesti più grandi, universali. Tutti ci possiamo riconoscere in quel respiro, in quel silenzio». E ancora, a proposito della recitazione: «Quando metti la maschera ti senti nudo. Tutto ciò che senti viene visto. È difficile, ma bellissimo. Il nostro compito è lasciare che la maschera recitati, che il pubblico proietti le sue emozioni su te. È un sentimento esposto, ma anche libero. La maschera non nasconde: rivela».
Nell'incontro, emerge una parola chiave del loro lavoro: fiasco. «Il fiasco è quando il clown fallisce e apre il suo fallimento al pubblico. È un modo per condividere l'umanità». E Anna Kistel, regista e attrice, aggiunge con dolcezza: «È come nei bambini: quando qualcosa va storto, loro non lo nascondono. Lo mostro. Quel momento di debolezza è puro, aperto, e diventa poetico». Un concetto che riecheggia anche in scena: Finale non teme l'imperfezione, anzi, la celebra. Ogni inciampo è un invito a partecipare.
La componente sonora è un altro personaggio dello spettacolo. Vasko Damjanov e Almut Lustig costruiscono dal vivo un paesaggio musicale fatto di suoni, respiri e silenzi. Almut racconta: «Molte cose nascono da improvvisazioni durante le prove. Quando la scena funziona, la musica arriva da sé. È come se il corpo si muovesse e la musica lo seguisse». Lei-Lei aggiunge: «A volte è il contrario: è la musica a guidarci. È un dialogo costante, non un accompagnamento».
Nel corso della conversazione, Gianni svela un piccolo segreto: «Prima di arrivare al linguaggio senza parole, durante le prove usiamo un 'sottotesto'. Non lo sente nessuno, non è un linguaggio normale come parliamo noi, però sono delle parole che danno forza ai gesti. È la lingua invisibile della maschera». Ogni maschera, spiega poi Fabian Baumgartner, nasce dal corpo dell'attore, dalle sue emozioni, dalle persone incontrate: «Creiamo prima i personaggi. Poi Hajo, il nostro scultore di anime, costruisce le maschere ispirandosi a ciò che abbiamo portato in scena. A volte la maschera e il personaggio si fondono, altre si respingono. E allora bisogna ricominciare».
Alla domanda sul titolo che è un ossimoro tra finale e apertura, Lei-Lei Bavoil sorride: «Finale era, nelle prime idee di Hajo, un sogno: alla fine dello spettacolo tutto il pubblico sarebbe salito sul palco. Non un addio, ma un'apertura, una porta che si spalanca verso l'altro». E quella porta, anche se non letteralmente attraversata, resta aperta. Il personaggio della “donna in cappotto grigio” incarna proprio il pubblico, una figura poetica che attraversa un portale tra una storia e l'altra: «È lei a tornare tra la gente, per dire che siamo tutti uno, che condividiamo la storia stessa».
Anna Kistel chiudendo con un pensiero che suona come una dichiarazione d'intenti: «Dopo trent'anni, siamo una famiglia di generazioni diverse. Finale parla di questo: di un passaggio, di una continuità. Di come il teatro possa essere ancora un atto di unione».
Con Finale, i Familie Flöz non mettono un punto, ma una pausa piena di respiro e memoria. In tre decenni di creazione condivisa, hanno costruito un linguaggio che unisce silenzio e stupore, comicità e malinconia. Le loro maschere diventano specchi dell'umano, capaci di riflettere emozioni senza mai pronunciare una parola. In scena, tre corpi danno vita a circa quindici anime, in un teatro che si rinnova a ogni battito di luce, a ogni ombra che cambia forma. E se qualcosa resta dopo l'ultima scena, è la certezza che i Familie Flöz ci hanno insegnato a guardare oltre il volto: nel gesto, nel respiro, nel vuoto fertile dove nasce davvero il teatro.