Foto di Nicola Garofano
Fabrizio Bosso è certamente uno dei migliori trombettisti italiani, apprezzato e amato in tutto il mondo, per la sua magica destrezza sullo strumento e dalla sua flessibilità tonale cercando anche d’impelagarsi in lavori diabolicamente difficili per la tromba.
L'artista torinese è approdato al Teatro Corelli di Trecase, in provincia di Napoli, per il Divino Jazz Festival con il suo Spiritual trio, Alberto Marsico all’organo e Alessandro Minetto alla batteria, condividendo con il pubblico la loro gioia contagiosa nel fare musica insieme, con i loro salti puliti, e l'eleganza sommessa di lirismo musicale fugace e delicati tocchi di colore, con la sua tromba artiginale, un prototipo neanche finito fatto da un costruttore dove si rifornisce di solito.
Fabrizio Bosso è molto impegnato in una serie di live, infatti, alla fine dell’anno sarà anche all’Umbria Jazz Winter in duo tandem con il pianista Julian Oliver Mazzariello, per due live imperdibili, il 31 dicembre e il Primo gennaio al Palazzo del Popolo di Orvieto, che saranno registrati per un album che uscirà in primavera e integrerà, in questo cd, altri brani suonati in studio.
Stasera sei al Divino Jazz Festival con lo Spiritual trio cosa proporrai stasera?
«Questa sera andremo ad attingere dai due album che abbiamo fatto insieme, dal primo album di esordio e Purple, registrato successivamente. Il repertorio è sempre un po' impostato sulla musica gospel con delle deviazioni, ogni tanto inseriamo anche degli standard, cose che ci piace suonare. Di base, la nostra idea è di usare il suono della tromba che va a sostituire la voce, quindi, la maggior parte dei brani che suoniamo, sono canzoni, tipo A change is gonna come, una ballad meravigliosa che cantava Sam Cooke e tanta improvvisazione. Con loro oramai c'è un legame pazzesco, una grande fiducia che contribuisce a creare un bel interplay.»
C'è un pezzo preferito che ami suonare?
«Ce ne sono diversi. Ci sono dei brani che non mi stanco mai di suonare, come alcune ballad tipo “Body and Soul” o “In a sentimental mood”,ma cambiano in base ai periodi e all'umore. Ci sono sere che senti di poter esprimere qualcosa in più su un certo tipo di brano e altre sere può essere un altro.»
Hai collaborato con molti artisti, con alcuni anche al festival di Sanremo. Com’è stata questa esperienza e se ritornerai prossimamente sul palco dell’Ariston?
«Siamo in attesa di una risposta, ho fatto un paio di soli con degli artisti che si stanno presentando al Festival. Per me è sempre stato divertente e rilassante, ne parlo a livello logistico, stare per una settimana nella stessa città e non prendere la macchina, aerei e treni, per me è una vacanza, poi non vivendola da cantante in gara è ancora meglio. Mi sono sempre divertito, più che altro al dopo festival nei primi anni quando si suonava in jam session con altri artisti. È bello perché vedi un carrozzone che in un niente svanisce. Ho il ricordo della domenica a Sanremo, sembra ci sia stata la guerra, fino al giorno prima non riuscivi a prendere un taxi o a girare per le strade o andare in un ristorante, improvvisamente la domenica mattina non c'è più nessuno, una tristezza, solo gente con le valigie. E un paio di volte mi sono dovuto fermare per andare a Domenica in. Ho vissuto questa atmosfera molto divertente, ti fa per rendere conto di cos'è e di quanta gente lavora che in un attimo finisce.»
Non hai, quindi, un’ansia da prestazione e se ce l'hai, cosa fai per controllarla?
«Per controllare l'ansia da prestazione, devi essere prima di tutto in forma. Lo strumento che suono richiede una certa prestazione fisica, è anche un fatto di cervello di collegamento, riflessi, ci sono tante cose. Per ovviare a questa cosa, il lavoro che ho fatto negli anni è stato quello di alzare lo standard delle mie esibizioni, sapendo che, anche in condizioni pietose, io meno di quello non suonerò e questo mi dà una certa garanzia. Ciò non toglie che quando devi fare un certo tipo di lavoro, come quello di ieri che ho registrato il Concerto in Vaticano, dove tu stai lì ore e ore a fare niente, poi devi salire sul palco, fare quattro note e devono essere a posto, sennò la gente ti ricorderà per lo scrocco e non per il passaggio bello e poi sai che andrà in televisore, quindi, c‘è un certo tipo di tensione e s’impara, anche in quelle cose lì, come ovviare e arrivare a cercare di fare bene, non cascare nel tranello della tensione. Ad ogni modo l’esperienza è quella che serve di più.»
La tromba affascina come strumento, ma cosa puoi dire a chi si vuole avvicinare all'ascolto, come deve ascoltare la tromba, con quale sensibilità?
«Bisogna intanto partire dal jazz quello un pochino più orecchiabile, meno complesso anche a livello armonico. Partendo anche dal dixieland che può essere comunque divertente, scoprire come ci si approcciava in quegli anni. Tutti i jazzisti hanno preso da lì, noi siamo un po' l'evoluzione di quella musica. Insomma, uno deve anche lasciarsi un po' trasportare dall'istinto, magari senti un suono di Miles,ti incuriosisce e allora vai a sentire cosa faceva Miles in quel periodo e così puoi fare un po’ con tutto.»
L’ascoltatore, quindi, si avvicina per la melodia e deve lasciarsi trasportare…
«La cosa fondamentale è quanto riesci a dare al pubblico, a prescindere da quello che suoni. Ci sono tanti miei colleghi, anche fortissimi, mostruosi sullo strumento, ma non riescono ad avvicinarsi al pubblico, dipende da come ti approcci. Devi pensare che, quando sali sul palco, devi metterti in comunicazione con la gente, non è detto che tutti siano predisposti ad ascoltare i tuoi trip mentali, perché a volte ce li facciamo quando suoniamo. Non è per forza che tutti devono essere pronti a questo, allora devi far capire che tu vuoi andare verso la gente, che non vuol dire fare i paraculi o fare il balletto o urlare è proprio l'approccio alla musica, se stiamo bene noi tre sul palco sicuramente riusciamo a trasmettere qualcosa di forte alla gente. Prima di tutto è importante che ci sia la coesione tra i musicisti per cercare di creare una relazione con il pubblico.»
…perché in una canzone di Renato Zero, Oramai, si sente la tua impronta…
«Questo è un po' l’obiettivo, a prescindere come suoni tecnicamente, di arrivare ad avere un suono riconoscibile, questa è la cosa importante.»
Un suono molto pulito, chiaro, asciutto, armonico…
«Un suono che si deve adattare alle circostanze.»
C’è stato un incontro professionale che ti ha messo in agitazione, perché amavi tanto incontrare questo artista…
«Forse la prima jam session che ho fatto con Wynton Marsalis, il trombettista più spettacolare degli ultimi parecchi decenni, per la sua consistenza di ogni nota che esce dal suo strumento. E ho avuto l’onore di suonare con lui in tre jam.»
Hai cominciato a cinque anni a suonare. Cosa ti ha affascinato della tromba?
«Intanto mio padre suonava la tromba e, quindi, all'inizio l’ho fatto per imitazione. Un suono che girava in casa fin da quando ero piccolo c'erano i dischi delle grandi Big band, di jazz, di Louis Armstrong e dei grandi cantautori da Tenco a Lauzi a Paoli. Ho approcciato l'improvvisazione sui dischi di pop, in realtà, non suonando il jazz. Improvvisavo perché la melodia è quella che ti permette di iniziare a muoverti.»