Music & Theater

Un letto, un numero, un inferno: Aniello Vintitrè. Recensione

Nel ventre profondo del Teatro Instabile di Napoli, sabato 10 maggio è andato in scena Aniello Vintitrè, opera intensa e lacerante scritta e diretta da Salvatore Formisano, che ha affidato all’eccezionale interprete Sasà Trapanese l’onere, e l’onore, di dar corpo e voce a una memoria collettiva che grida ancora tra le mura chiuse degli orfanotrofi del Novecento.
Lo spettacolo si apre con un’atmosfera quasi fiabesca, subito incrinata da un senso di minaccia sottile, che si incarna nel racconto spezzato e viscerale di Aniello, un uomo segnato da un’infanzia vissuta tra i vicoli umidi dei bassi napoletani e le mura fredde di un istituto religioso. È qui che si consuma il cuore pulsante della narrazione: la perdita, l’abbandono, la brutalità travestita da carità, il trauma che si annida e che neppure la speranza riesce più a riscattare.
Sasà Trapanese è semplicemente magistrale. Con una mimica asciutta, mai ridondante, e una voce che sa farsi carezza o pugno, l’attore incarna l’anima lacerata di Aniello De Gregorio, trasformato in Vintitrè, come il numero del suo letto, da un sistema che numerava i bambini come oggetti. Trapanese si muove in scena con una fisicità sofferta ma mai patetica, attraversando la narrazione con un'intensità rara. Ogni gesto, ogni pausa, ogni cambio di tono è calcolato con precisione chirurgica e con empatia sincera. Il suo corpo diventa palcoscenico di una moltitudine: bambini maltrattati, suore punitive, madri assenti, amici immaginari come Geretiello, incarnazione di un’infanzia negata.


Formisano costruisce un testo che è insieme denuncia sociale e poesia sporca. Il dialetto napoletano, usato con intelligenza e dolore, non è mai folkloristico, ma strumento di realismo crudo e lirismo popolare. Le frasi come “ ‘e mamme so’ femmene ca tèneno ‘o curaggio ‘e abbandunà ‘e criature p’’o bene loro”, “E mamme so luce eterna” o “picchiati dalle monache se non facevamo quello che dicevano” non sono solo battute teatrali: sono testimonianze storiche. E il pubblico non ascolta, ma trattiene il fiato.
La scenografia è essenziale: un inginocchiatoio, canestri e lumini, una panca. Una povertà scenica che amplifica il vuoto dell’orfanotrofio e la desolazione interiore del protagonista. La luce, spesso ridotta al minimo, scolpisce volti e ombre, e quando si fa improvvisamente chiara, quasi accecante, restituisce la violenza dei ricordi repressi.
Il suono gioca un ruolo fondamentale: l’eco di passi, la nenia delle filastrocche, lo sfotto degli altri ragazzi dell’orfanotrofio, il rimbombo della voce imperitura delle suore caporali, brutte e nere. L’assenza della madre, il silenzio di Dio, il brusio della paura: tutto vibra nella voce sola e molteplice dell’attore.
Aniello Vintitrè non è solo uno spettacolo: è una discesa negli abissi della memoria collettiva, un atto politico, un funerale laico per i bambini dimenticati. È un’opera che richiama alla mente i racconti agghiaccianti degli orfanotrofi cattolici, dove i numeri prendevano il posto dei nomi e gli antri scuri e bui diventavano strumenti di punizione. La crudeltà sistemica, il sadismo vestito da abito religioso, l’infanzia come campo di battaglia tra carne e peccato: tutto questo trova un’eco terribile e potente in scena.
Sasà Trapanese regge sulle sue spalle l’intero spettacolo con la potenza di chi non recita, ma rivive. L’interpretazione è un atto di resistenza, un omaggio agli Aniello, ai Geretiello, ai figli del peccato abbandonati dal mondo e da Dio.
Con Aniello Vintitrè, Salvatore Formisano firma una regia spoglia e necessaria, dove il realismo magico si fonde al teatro della memoria. Uno spettacolo da vedere, da ricordare e, soprattutto, da ascoltare con la pelle.