Nel grembo del caos: Baùbo e l’arte di non essere morti al Bellini di Napoli. Recensione
- di Nicola GarofanoAl Teatro Bellini fino al 13 aprile va in scena Baùbo - de l’art de n’être pas mort, dalle opere di Buxtehude, Musil, Schütz e altre per la regia di Jeanne Candel di e con Pierre-Antoine Badaroux, Félicie Bazelaire, Prune Bécheau, Jeanne Candel, Richard Comte, Pauline Huruguen, Pauline Leroy, Hortense Monsaingeon e Thibault Perriard.
Se si volesse definire Baùbo – Sull’arte di non essere morti con una sola parola, sarebbe forse deriva. Una deriva poetica, sensuale, una linea sottile tra il dolore e il riso, tra la tragedia e la gioia. Un viaggio senza mappa né bussola, in cui Jeanne Candel ci trascina con un’opera impossibile da classificare, anche se Jeanne dice che è un gran bazar dove lei ci incammina con eleganza e audacia ma anche un turbine di immagini, suoni e azioni che sfuggono alla linearità narrativa.
Ispirandosi alla figura mitologica di Baùbo – la donna che fece ridere Demetra mostrandole il sesso, risvegliandola dal lutto per la figlia perduta – Candel costruisce un universo scenico iconoclasta, anarchico e sensoriale. Ma non si tratta di un'operazione didascalica o filologica: Baùbo è una discesa nel profondo, nel caos emotivo, nell’erotismo arcaico che diventa linguaggio, danza, suono, gesto.
Lo spettacolo si apre con una giovane donna che parla una lingua sembra sia dell’Est, che poi scopriamo sia una lingua inventata, quella che la stessa regista usava con il padre da bambina, tradotta a fatica in italiano da un interprete spaesato. Una confessione, su un amore devastante, finito male.
Cade il sipario che si apre in una sorta di camera ardente immersa nelle ceneri di un amore perduto, lo spettatore viene trascinato in una dimensione intima e lacerata. La protagonista, una donna che sopravvive al proprio dolore, si muove tra frammenti di memoria, grida e sussurri, mentre la musica di Heinrich Schütz, smembrata e riassemblata da Pierre-Antoine Badaroux, si insinua tra i corpi e le parole, come linfa viva. Il suono non accompagna: agisce, disturba, consola, urla, consola di nuovo, il violino barocco dialoga con la chitarra, la batteria, il sassofono, mentre la voce potente e sensibile della mezzosoprano Pauline Leroy s‘intreccia con quelle degli attori, creando una drammaturgia musicale autonoma e pulsante in quest’universo onirico popolato da apparizioni surreali: Parche che si mutilano le orecchie, donne che divorano il proprio seno, armature vuote, mele newtoniane e scale che conducono a spioncini da cui osservare il mondo sottostante. Nulla ha una direzione univoca. L’ordine non è quello della logica, ma quello del sogno e dell’inconscio, della creazione pura. Lo spettatore, come Alice nel paese delle meraviglie mitologiche, è invitato a perdersi per ritrovarsi, a smettere di cercare senso e lasciarsi travolgere dalla vibrazione.
E poi arriva il gesto. Non letteralmente, certo, ma nella sua forza simbolica: quel sollevare la gonna, quel mostrare la carne non come oscenità ma come impulso vitale, principio formale, atto di rottura. È qui che il teatro di Candel si trasforma: da lamento diventa giubilo, da rappresentazione si fa celebrazione. Il corpo si libera, l’immaginario esplode, la scena si riempie di vita.
Candel, che si definisce in contatto con il suo folle, il suo demone e il suo bambino, costruisce una drammaturgia del caos organizzato, dove ogni movimento è carico di senso, ogni stravolgimento è un atto di rinascita. Il testo – presente solo nella prima parte – lascia presto spazio all’immagine, alla musica, al ritmo. Perché Baùbo non è teatro di parola, ma di visione e trasformazione.
Si esce dallo spettacolo storditi e vivi. Non si è capito tutto, non si doveva. Ma si è percepito qualcosa di profondo, di epidermico, di vitale. Come camminare in un campo d’erba alta, a piedi nudi, sotto un cielo che non promette risposte ma apre infinite domande.
In un’epoca che chiede ordine, chiarezza, certezze, Baùbo sceglie l’ambiguità, l’eccesso, il delirio. E proprio per questo è uno spettacolo necessario. Non da capire, ma da sentire.