Music & Theater

«Fare teatro non è un mestiere che fai per vivere o sopravvivere, è una responsabilità che prendi». Intervista ad Elisabetta Pozzi

Foto di Lamanna

Stasera il Teatro Sannazaro di Napoli avrebbe dovuto ospitare lo spettacolo Cassandra, scritto, diretto e interpretato da Elisabetta Pozzi, capace di costruire una drammaturgia originale che. partendo dalle tragedie di Eschilo ed Euripide, compie un affascinante percorso intorno alla profetessa troiana alla quale il dio Apollo ha dato il dono di predire il futuro ma anche la condanna di non essere creduta, per rileggere grandi testi ed autori di ogni tempo tra i quali ricordiamo: Seneca, Omero, Pasolini, Szymborska.

Noi di The Cloves Magazine l’abbiamo raggiunta telefonicamente.

Avremmo preferito incontrarla di persona stasera a teatro, protagonista di Cassandra. Ci dispiace tantissimo non poterla ospitare nella nostra città ancora una volta, dopo il successo di un altro suo spettacolo dal titolo Apologia, presentato al Teatro Mercadante.

«La rassicuro, stiamo prendendo accordi per stabilire una nuova data».

Ne siamo felici e le promettiamo di farle assaggiare qualche sfogliatella, per la serie non fiori ma opere di bene…

«Eccola là, benissimo!»

Visti i suoi impegni le domande saranno poche e cercheremo di non tediarla…

«Sto preparando una serie di piccoli interventi sui personaggi classici su richiesta del professor Casella, un insegnante di un liceo classico di Napoli. Anche in questo brutto periodo sto cercando di rendermi utile per quel che posso».

Ecco la prima domanda. Lei ha debuttato giovanissima con Giorgio Albertazzi ne Il fu Mattia Pascal di Pirandello, un testo certamente non facile. Cosa ricorda di quella prima esperienza e del suo sodalizio con il grande attore fiesolano che la volle anche in altre produzioni?

«Non ero neppure maggiorenne. Innanzitutto, ricordo che fu un tale shock essere selezionata per il ruolo di Romilda, ovviamente la cosa sconvolse la mia vita. Neppure la mia famiglia sapeva del provino. Frequentavo l’ultimo anno del liceo classico e fu abbastanza sconvolgente e di quel momento lì, ricordo la mia follia di adolescente. Andare così, allo sbaraglio».

Giorgio Albertazzi all’epoca era un attore già famoso. Immaginiamo anche la sua ingenuità nell’accattare.

«Esatto. Ma mi sono buttata a pesce, senza capire nulla, senza rendermene conto».

Ma forse questa è la cosa migliore. Quando capita l’occasione bisogna prenderla al volo, senza stare lì, a pensarci troppo…

«La relazione con Albertazzi è andata avanti parecchi anni e lui mi ha insegnato, non tanto il come si fa il teatro,cosa ugualmente importantissima, ma anche cosa comporta fare il teatro, cioè prendersi addosso una grande responsabilità. Fare teatro non è un mestiere che fai per vivere o sopravvivere, è una responsabilità che ti prendi nei confronti del mondo in cui vivi perché il teatro deve essere costantemente lo specchio della società e l’attore deve essere sempre a disposizione. Si può e si deve continuare a vivere specialmente se hai forte il senso della cultura, cioè di tutto quello che fa fiorire al nostro interno un’idea di cultura che non ti lascia solo, non ti fa sentire smarrito».

Il teatro deve educare e deve stimolare la riflessione…

«Esatto».

Emile Zola diceva:L’artista è niente senza il dono e il dono è niente senza lavoro”.Condivide questo pensiero e per lei è più importante il dono o il lavoro?

«Credo ci siano persone che hanno un dono, io non so giudicare me stessa. So che quando sono in teatro, quando riesco a comunicare, quando sto sul palcoscenico mi rendo conto di avere una grande forza. Lo sento. Sento che le persone che sono lì, in platea, riescono a sentire quello di cui parlo, riesco a coinvolgerle, a essere credibile, ad arrivare al cuore perché si affidano a me e si fidano di me. Poi è anche vero che ho lavorato moltissimo sulla tecnica, ci ho lavorato veramente per decenni. Direi quasi che continuo a farlo nel senso che non c’è giorno che non mi alleni sui fiati, fisicamente. Tecnicamente penso di essere fresca, allenata».

Lei predilige portare in scena personaggi complessi dell’universo femminile. Cosa l’appassiona in questa costante ricerca e perché?

«L’universo femminile è complesso, sfaccettato, è tutto, quasi più di quello maschile. Parto sempre dai personaggi classici, perché sono noi, sono dei modelli universali a cui noi continuamente ci riferiamo o meglio sono sempre in noi. Quelle 27 tragedie di cui noi abbiamo conoscenza, sono tutto ciò che si può narrare dell’essere umano».

A questo proposito ci viene in mente un libro scritto da Gabriele Lavia, altro grande attore, dal titolo Se vuoi essere contemporaneo leggi i classici(Mondadori 2017)…

«Certo. Prendo le grandi tragedie e poi ci lavoro nel senso che piano piano ne faccio emergere l’attualità. Far capire cosa è un certo personaggio è molto difficile, anche per problemi legati al linguaggio ovvero devi adeguare il contenuto del personaggio al linguaggio più contemporaneo. Io sono partita da Medea e poi Clitennestra, Cassandra…».

Riuscire a fare una profezia e non essere creduta deve essere terribile. Pensiamo a coloro che proclamano la loro innocenza eppure sono carcerati e non sono creduti. Cassandra è un personaggio che destabilizza. E, quindi, le chiediamo, che cosa c’è della donna Elisabetta Pozzi nei personaggi che interpreta?

«Ho portato sulle scene molti personaggi, ma la questione non è quanto metto di me nel personaggio ma anche dove recito. Se devo interpretare la Medea di Euripide a Siracusa riesco a coglierne tutte le nuances. Mi metto a disposizione del personaggio con il mio corpo, con la mia voce, con il mio stare sulle tavole di un palcoscenico. Do vita e vitalità al personaggio, come mi viene chiesto. Quando, invece, sono io a scegliere il personaggio ci lavoro su e trovo altri punti di vista. Per Cassandra il lavoro è stato molto complesso perché ho tenuto d’occhio i grandi pensatori del passato, soprattutto quelli del secolo scorso, che hanno profetizzato ciò che sarebbe accaduto. Una delle frasi famose dello spettacolo Cassandra è questa: come fai a non vedere il futuro se conosci le condizioni del presente e conosci il tuo passato? Ovvero, come fai a non capire quello che accadrà se tu vedi quello che accade e lo sommi a quello che è successo nel passato? Si può conoscere il futuro in questo senso. Anche oggi, forse questa pandemia poteva non coglierci di sorpresa, qualcuno l’aveva già profetizzata decenni fa».

Crediamo di poter azzardare una risposta: oggi la storia non viene più insegnata e nessuno impara più nulla dalla storia. Se noi non analizziamo le cause di certi accadimenti siamo costretti a ripetere sempre gli stessi errori. Vico aveva già parlato dei corsi e dei ricorsi storici…

«Ci sono libri del 1950 o anche precedenti che hanno previsto alcune cose che sono successe oggi, per esempio, un certo atteggiamento del capitalismo in economia. Se una grande civiltà pone le sue basi esclusivamente sull’economia, l’unico vero valore diventano i soldi. La conseguenza è che non c’è più protezione per l’individuo, della sua mente, del suo modo di ragionare autonomamente. Siamo dentro a un circolo vizioso che favorisce esclusivamente coloro che ne traggono benefici. Anche in questo momento c’è una gran parte dell’umanità che soffre, è messa in ginocchio e una piccola parte che si arricchisce sempre di più, molto più di prima. Non capiamo dove siamo e non abbiamo neppure la forza per ribellarci».

                   

É vero, c’è una rassegnazione e non ci indignamo neppure… e a questo proposito, cosa pensa della condizione femminile attuale? Ci rendiamo conto che è una domanda impegnativa.

«Non mi pare che si stia facendo molto. Tutti i movimenti, le proteste, tutti coloro che hanno esternato la loro solidarietà nei confronti delle donne violentate, percosse non sono riusciti a cambiare le condizioni delle donne che continuano a subire e anche a guadagnare meno degli uomini, a parità di compiti. Il problema è che c’è una grandissima maggioranza di donne che, purtroppo, rende possibile questo giudizio. Ci sono ancora quelle che approfittano del fatto di essere belle e giovani e si mettono a disposizione di un sistema che le massacra. Finché saremo considerate come oggetti più o meno gradevoli, come se non avessimo un pensiero critico e autonomo, la condizione non cambierà perché siamo ancora in una società patriarcale. Ci sono comunità rette dalle donne ma sono la minoranza».

Pur avendo vinto prestigiosi premi in campo cinematografico e avendo lavorato con registi del calibro di Antonioni, si è dedicata quasi esclusivamente al teatro forse perché il cinema non le ha proposto ruoli adatti alle sue alte corde interpretative?

«Ho fatto una scelta precisa, tantissimi anni fa e la perpetuo. Ho avuto delle occasioni che mi hanno convinto però poi non mi andava di entrare in una logica che prevede di essere sempre a disposizione e dare disponibilità lunghissime. Questo mi avrebbe impedito di fare teatro a modo mio. A teatro anche con un pubblico limitato mi sento a mio agio, realizzata, ho la possibilità di esternare una mia idea e sono consapevole che il teatro ha una grande funzione sociale. Guardo il cinema e vedo anche bravi attori e registi ma non mi ci trovo. Forse non mi reputo abbastanza brava per fare il cinema, non so».

Eduardo diceva : “Fuori dal teatro mi sento uno sfollato”…

«Forse sì. Non amo la mia immagine al cinema dove io non posso più intervenire».

Lei soffrirebbe anche per la mancanza del pubblico. Ogni sera si rinnova una magia e lo spettacolo è sempre diverso.

«Infatti, la presenza del pubblico è fondamentale per un attore».

Signora Pozzi, è stato un privilegio parlare con lei. Le auguriamo giornate serene e ricche di cultura ma soprattutto di emozioni, le stesse che lei dispensa al suo pubblico.

«Grazie di cuore!».

Ah, dimenticavamo: le sfogliatelle ricce o frolle?

«Ricce, sa quelle piccoline…».

Allora ci vedremo presto a Napoli. Busseremo con i piedi al suo camerino perché tra le mani avremo un vassoio stracolmo di piccole e fragranti sfogliatelle ricce!