Music & Theater

Antonella Morea, una vita consacrata al teatro, tra Napoli e le grandi scene. Intervista esclusiva.

Foto di Carlo Vitiello

Antonella Morea, attrice napoletana di grande talento e sensibilità, ci apre le porte del suo mondo fatto di teatro, musica e passioni profonde. In quest’intervista esclusiva, ripercorriamo con lei alcune delle tappe fondamentali di una carriera costellata da incontri straordinari e collaborazioni con i più grandi maestri del teatro italiano, un piccolo estratto di una carriera lunga quasi cinquant'anni. Dalla scoperta precoce del palcoscenico, grazie a figure come Franco Acampora e Maria Di Maio, fino ai grandi successi ottenuti con Roberto De Simone e Luca De Filippo, fino alle recenti esperienze con Puteca Celidònia, Antonella Morea ci racconta di un percorso artistico intenso e appassionato, svelando aneddoti e curiosità e sempre alla ricerca di nuove sfide e di una continua evoluzione.
Il suo esordio nel mondo teatrale avviene nel 1976 con Tupeapò (Napoli, una storia). Cosa ricorda di quell’esperienza e come ha influenzato lavorare accanto a figure come Franco Acampora e Maria Di Maio?
«Ho debuttato nel 1975 con Tupeapò, uno spettacolo tratto dalla novella di Matilde Serao, Il pittore dei Santi, tratta da Storie di due anime. Gennarino Palumbo interpretava il pittore dei Santi che s’imparenta con una borghese, ma lì la borghesia era chiaramente fatta a pezzi. E invece, sulla spiaggia, davanti al palcoscenico, c'era questo scugnizzo, che viveva la sua condizione drammatica di soldato della guerra. Quindi, strappato alla natura e al suo mondo, ed era Franco Acampora, che recitava con questo straniamento brechtiano, molto in voga all'epoca, soprattutto perché lui proveniva da quello spettacolo meraviglioso che era Napoli, notte e giorno di Giuseppe Patroni Griffi e, anche Io, Raffaele Viviani…, con la regia di Achille Millo e la supervisione musicale di Roberto De Simone. Dall'altro lato c'era Maria Di Maio, rappresentante della tradizione più pura, trapiantata in questa storia di borghesi che creava un forte contrasto. Per me è stata una lezione incredibile di teatro, vedere per la prima volta questi attori. Avevo già visto parecchio teatro; mia madre mi portava sempre al Politeama a vedere spettacoli, quindi ho assistito a molte rappresentazioni importanti, come quelle degli Associati di Sbragia e Fantoni, Mario Missiroli con Lina Volonghi... insomma, avevo già visto cose bellissime. Il teatro mi affascinava. Tutto quello che ho fatto, tutte le persone e gli attori che ho incontrato, mi hanno lasciato qualcosa. Ciò che più mi piaceva, lo rubavo con grande piacere. E Gennarino Palumbo, che è stato un grandissimo compagno, anche in Festa di Piedigrotta che facemmo più avanti con De Simone, è stato un grandissimo compagno di scena e mi ha insegnato tantissime cose. Sono tutte esperienze di cui ho fatto gran tesoro». 

      

         Tupeapò (1976) regia di Lucio Beffi

Clelia Matania ha avuto un ruolo cruciale nel suo percorso, notando il suo talento e incoraggiandola a fare il provino per La Gatta Cenerentola. Come ha segnato la sua carriera quest’incontro? Può raccontarci qualcosa del suo rapporto con Roberto De Simone?
 «Clelia Matania è stata l'artefice della mia partecipazione al provino con De Simone. Nella compagnia di Tupeapò c'era sua cugina Vera, che recitava con noi, e Clelia veniva a sentirla, a vederla, e assisteva anche alle prove. Un giorno mi disse: "Ma tu, che sei così brava, che hai questa voce, perché non vai a fare il provino con De Simone? Lui vuole far fare a me la parte della lavandaia, ma io ho 40 anni, sono vecchia. Sei tu quella che deve andare, devi andare, devi andare!" Io, però, rispondevo: "Guarda, non farmi andare perché ho paura. Non ho studiato queste cose, non ho la tecnica. Se lui mi fa una domanda, diciamo, attinente a una tonalità, non saprei rispondere e farei una brutta figura". E così continuavo a rimandare, dicendo a Clelia di lasciar perdere. Un giorno, però, mentre stavo mangiando a casa, mi chiama il maestro De Simone in persona e mi dice: "Ma lei perché non vuole venire a fare il provino?" Capirai, mi aveva chiamata direttamente lui! Volevo solo scomparire. Alla fine ci sono andata, ho fatto questo provino, ed è stato veramente molto bello, perché l’ho fatto davanti ai miei miti, Concetta e Peppe Barra. L'incontro con lui è stato fulminante, perché, se c'è un maestro che riconosco, è lui. Lui è il mio maestro, quello che mi ha insegnato tutto, perché io ero piuttosto inesperta, sia per quanto riguarda il teatro sia la musica. Appena finita la prima tournée di Gatta, andavo a studiare insieme a Virgilio Villani e Mauro Carosi a casa sua. Studiavamo i Madrigali, le Villanelle, i Carmina Burana... Ci ha impartito delle lezioni bellissime, ma anche lezioni di vita. Il giovedì pomeriggio lo accompagnavo nei salotti della Napoli bene, al Circolo della Stampa, dove c’era il giovedì dell'arte, dove ho conosciuto Lucio Amelio, Leonardo Sciascia, Francesco Rosi, personaggi veramente importanti. Il mio rapporto artistico con Roberto De Simone è stato veramente completo. È come se avessi frequentato le elementari bene, e quindi ero pronta per affrontare le medie e poi il liceo. Quando hai delle buone basi, puoi andare avanti con tranquillità. Per molti anni, e ancora oggi, La Gatta Cenerentola è il mio biglietto da visita per tutte le compagnie e per tutti i registi che mi chiamano».
Ha avuto un lungo sodalizio artistico con Roberto De Simone. C'è un progetto o uno spettacolo in particolare, tra i tanti a cui ha partecipato, che considera più significativo o che l’è rimasto particolarmente nel cuore?
«Il sodalizio con Roberto è stato lungo e piacevolissimo. Se dovessi scegliere uno spettacolo in particolare, non ci riuscirei, perché ogni volta me ne viene in mente un altro, ancora più bello del precedente. Tuttavia, uno dei ricordi più vividi è l'incontro con gli Inti-Illimani, un gruppo meraviglioso che noi ragazzi seguivamo nei teatri negli anni Settanta, come al teatro Mediterraneo, quando vennero qui e non potevano più tornare nel loro paese, e noi cantavamo El Pueblo Unido Jamás Será Vencido senza aver subito nulla di ciò che avevano vissuto loro, ma con tanta forza, perché il loro canto era straordinario. Ricordo ancora quel giorno in cui dovevamo fare le prove dello spettacolo, entrarono dalla porta del Mercadante con grande umiltà. Iniziarono a suonare, e noi cominciammo a cantare sulle note che loro suonavano. La cosa più sorprendente fu la spiegazione del maestro, che ci disse che il nostro movimento di tarantella è in battere, mentre il loro è in levare; insieme creavano un'esplosione di energia. Infatti, lo spettacolo Cantata per Masaniello fu davvero una bomba. Non posso non esprimere la mia profonda gratitudine a Roberto per avermi dato l'opportunità di cantare al Teatro San Carlo e alla Scala di Milano. Alla Scala, interpretavo Il Socrate Immaginario e cantavo Plaisir d'amour in un punto preciso del teatro. Un macchinista mi disse: "Signora, sa dove sta cantando?" Io risposi: "No." E lui: "Sta cantando nel punto Callas." Non capivo cosa volesse dire, e lui aggiunse: "Qui la Callas cantava la Norma di Bellini." Mi sono gelata, pensando al peso di quell'eredità: temevo fischi e pernacchie quella sera. Invece, ci furono applausi incredibili, perché tutto era ben congegnato, cantato e suonato magnificamente da un'orchestrina di donne, un'esperienza davvero pregevole. Ma ci sono state tante altre esperienze meravigliose con Roberto, come il Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini. Roberto aveva questa straordinaria capacità di unire cori lirici, cori di voci naturali, una grande orchestra, e un gruppo formato da artisti come James Senese, Danilo Rea, Danilo Terenzi e Roberto Gatti, oltre ai solisti. Insomma, ho partecipato a progetti che difficilmente potrò ripetere, ma sono felice di averli vissuti, perché mi hanno insegnato tantissimo».

                         
                            

La Gatta Cenerentola (1976) - Coro delle lavandaie 2 - Foto di Mimmo Jodice

Essendo nipote del celebre Renato Carosone e sorella della scrittrice Delia Morea, quanto ha influito la sua famiglia sulla sua scelta di intraprendere una carriera nel mondo dello spettacolo?
«Penso che la mia famiglia abbia influito moltissimo, anche se non tanto nelle scelte deliberate, perché non ho scelto consapevolmente di fare teatro. È successo un po' per caso. Cantavo con la chitarra nei locali perché mi piaceva cantare, ma non pensavo mai di diventare una cantante o un'attrice. Sono diventata attrice per caso, quando un signore di Torre del Greco mi offrì la possibilità di recitare, ma non avrei mai immaginato che potesse diventare la mia vita. In casa nostra si respirava aria di musica. Avevamo anche uno zio, Umberto Martucci, che pur essendo un agente delle tasse, amava scrivere canzoni napoletane; infatti, è lui l’autore di Indifferentemente. Quando c’era il Festival di Napoli, la nostra casa, con il pianoforte sempre in uso, si riempiva di artisti, compositori e cantanti che andavano e venivano. Io, da piccolina, stavo sulle gambe di mio zio Umberto e ascoltavo le loro canzoni. Quest’ambiente è sempre stato parte della nostra vita. Mia madre ci portava ogni domenica al Politeama, perché i nostri zii avevano il botteghino lì, e così ogni settimana andavamo a vedere uno spettacolo teatrale. Il venerdì guardavamo le commedie in televisione. Era bellissimo ascoltare quelle storie, vedere il teatro, emozionarsi, proiettarsi in un altro mondo. Quest’atmosfera l’ho respirata sin da bambina, e poi mi è capitato di viverla pienamente. Mia sorella Delia, in tutto ciò, è stata la prima a voler fare l’attrice, lavorando con il teatro d'avanguardia, con i Santella. Poi capì che non era quella la sua strada e iniziò a scrivere di teatro per i giornali. Tuttavia, scrivere per i giornali non era sufficiente per vivere, a meno di avere un contratto importante, cosa che all'epoca non accadeva, e quindi dovette trovare un impiego. Nel frattempo, la sua vena di scrittrice non l'ha mai abbandonata, e oggi è una scrittrice di successo, con quattro romanzi, uno più bello dell'altro. Anche la nostra nonna, la mamma di mamma, era una canzonettista. A dieci anni cantava nei cartelloni importanti, dove si esibivano artisti come Anna Fougez ed Elvira Donnarumma. Lei era piccolina, ma già cantava. Quindi, in casa nostra l’arte è sempre stata una cosa normale, non una novità. E così, respirando quest’aria, siamo finite a seguire questa strada. Ha influito moltissimo, davvero moltissimo».
Lei ha avuto il privilegio di interpretare ruoli in opere profondamente radicate nella tradizione napoletana, come Miseria e Nobiltà e Il Socrate immaginario. Quant’è importante per lei preservare e rinnovare la tradizione teatrale partenopea?
«Si può dire che ho iniziato bene, con Gatta Cenerentola, senza fare la gavetta classica. Però, in seguito, l’ho fatta, ed è stata una signora gavetta. Non ho mai fatto cose di poco conto, ma se in Gatta Cenerentola avevo un ruolo ben preciso, mi sono poi trovata in alcuni spettacoli a dover solo cantare, senza fare altro. È come se avessi fatto davvero la gavetta. Tutta la mia esperienza con Galdieri e Giuffrè, per esempio, è stata fatta di piccoli passi nel mondo del teatro e della musica. Di ogni esperienza ho fatto tesoro, sfruttando ciò che mi piaceva e che quindi ho integrato nella mia vita artistica. Ancora oggi continuo a evolvermi. Recentemente, con i ragazzi di Putéca Celidònia, mi sono trovata a dover ristudiare da capo un testo che, all'apparenza, sembrava poter essere rappresentato in modo naturalistico, ma non è stato così. Abbiamo frammentato la parola, tolto le punteggiature, cambiato il senso delle frasi per poi tornare sui nostri passi con una consapevolezza diversa. Insomma, non smetto mai di studiare. Quando ho conosciuto Patroni Griffi, è stata un'altra occasione per trovare nuovi stimoli. Peppino, essendo un romanziere e un trasgressivo, ci faceva recitare persino di spalle. Io ho recitato spesso di spalle con Peppino, e la gente rideva, dicendo: “Guarda, anche le spalle parlano”. Era un mondo diverso, un po' glamour, quello di Peppino, molto, molto bello. Con Leopoldo Mastelloni, ho avuto una scuola pazzesca, anche senza volerlo. Ricordo uno spettacolo in cui eravamo due donne, due prostitute. Vedevo Leopoldo spogliarsi, mettersi le calze, i collant, cosa che io, donna, non avrei mai saputo fare con la sua stessa eleganza. È stato tutto un altro tipo di fascinazione, una lezione di affabulazione, anche quando si è soli o in coppia. Tutto ciò ha arricchito enormemente il mio bagaglio artistico, e oggi sto raccogliendo i frutti. Devo dire la verità, sono un'attrice molto stimata, perché la passione non mi ha mai abbandonato. Non mi fermo mai nelle mie consapevolezze di attrice, mi metto in gioco, mi metto in discussione. Credo che questo sia molto importante per rinnovarsi e per rinnovare il proprio repertorio».
Nell'estate del 1976, al Teatro Cilea di Napoli, ha recitato in O juorno ‘e San Michele con Aldo Giuffré e Ida Di Benedetto, sotto la regia di Mico Galdieri...
«O juorno ‘e San Michele includeva le musiche di Angelo Manna nel testo originale, ma non erano per niente belle. De Simone le riscrisse da capo, e per molti anni queste nuove musiche sono diventate un cult per i gruppi “popolari”. Tuttavia, la canzone popolare è andata un po' scadendo, perché, non conoscendo la vera fonte—ovvero i contadini e il pensiero di De Simone—si è un po' sgretolata. Hanno iniziato a fare di testa loro, mentre noi ci attenevamo al rigore stilistico delle villanelle, che è fondamentale. Quando ho realizzato un disco con De Simone, Era De Maggio - Anamnesi Digiacomiana, ho dovuto imparare a cantare in un modo completamente diverso. All'inizio mi è stato detto di azzerarmi come cantante: non dovevo pensare a rifiniture inutili, ma cantare esattamente come indicava la partitura, in modo lineare. La partitura era talmente importante, scritta da grandi musicisti, che non andava cambiato nulla. Se si ascolta il mio disco, qualcuno potrebbe dire: “Ma è la Morea che canta? Sembra un'altra persona!”. È tutto molto scandito, e, ad esempio, quando ho dovuto eseguire delle frasi musicali, ho dovuto farle tutte in un unico fiato, senza interrompere, perché così prevedeva la partitura. È stato un lavoro davvero impegnativo: ho lavorato per tre mesi, e ne è uscito un disco che è una vera e propria antologia, molto bella. Ogni volta che ho lavorato con De Simone, è stata una grandissima scoperta. Diceva sempre cose illuminanti, dalle quali ho tratto un grande insegnamento. Oggi, affascinata dal pop, riesco ad affrontare anche quest’altro genere musicale grazie alle lezioni che ho ricevuto da lui in passato».

Una giovanissima Antonella, nella trasmissione "O paese d"o sole (1975), ideata da Aldo Bovio, in onda su TeleNapoli. 
Insieme ai grandi della canzone: Nunzio Gallo, Toni Astarita, Mirna Doris e Mario Merola.          

Lei ha partecipato allo sceneggiato televisivo Rai Storie della camorra, con la regia di Paolo Gazzara, trasmesso nella primavera del 1978…
«Storie della camorra è un progetto a cui ho partecipato dopo Gatta Cenerentola, nel '77, perché De Simone ne curava le musiche. Io ho preso parte come cantante, ma mi sono trovata anche a interpretare il ruolo della sciantosa e a eseguire duetti legati al mondo della malavita. In quell’occasione, ho richiamato alla mente le lezioni che ho appreso, anche involontariamente, da grandi artisti come Mario Merola e Nunzio Gallo, quando facevo le mie prime esperienze in televisione libera, su Telenapoli. Lì conducevo una trasmissione televisiva intitolata ‘O Paese d’‘o Sole. Anche in quell’ambiente ho “rubato” tantissimo, osservando e imparando da artisti come Mirna Doris e lo stesso Mario Merola. Naturalmente, ho preso solo ciò che ritenevo fondamentale, evitando le  esagerazioni e i mielismi inutili. Tuttavia, quell’esperienza mi è servita tantissimo, davvero tanto».

                                           

                                                     OST dello sceneggiato RAI TV " Storia della Camorra " – 45 giri anno 1978
Può dirci qualcosa riguardo alla sua partecipazione nello spettacolo del 1984 Casina, per la regia di e con Renato Rascel?
«L'opportunità di partecipare a Casina con Renato Rascel è arrivata in un momento in cui avevo deciso di abbandonare la carriera di attrice. Non mi trovavo a mio agio nell'ambiente teatrale e avevo deciso di dedicarmi all'insegnamento, anche perché avevo superato alcuni concorsi. Tuttavia, mentre stavo per intraprendere questa nuova carriera, fui contattata da un produttore che mi disse che Renato Rascel e Giuditta Saltarini stavano mettendo in scena questa commedia di Plauto e volevano vedermi. Feci il provino e fu un'esperienza meravigliosa. Interpretavo la vicina di casa che faceva pettegolezzi e parlava direttamente con il pubblico. Per una ragazza di 22-23 anni, parlare con il pubblico era un'impresa difficile, ma Rascel mi insegnò a farlo con naturalezza, senza paura o timore. Alla fine dello spettacolo, ci faceva ballare e cantare insieme a lui il pezzo finale, Gli applausi, scritto da lui stesso. Era bellissimo lavorare con Rascel, anche al di fuori del teatro. A cena, la sera, si metteva a cantare Arrivederci Roma e altre sue canzoni, e ci faceva fare dei cori blues a me e ad un’altra ragazza. È stata un’esperienza davvero indimenticabile».

Nel 1986 prende parte ai suoi primi film, come Il camorrista, diretto da Giuseppe Tornatore…
«Il camorrista di Tornatore fu il mio primo film. Feci un provino e lui inizialmente voleva affidarmi il ruolo di una camorrista cattiva, ma poi ci ripensò e disse: "No, non hai il viso da camorrista cattiva. Ti farò interpretare la zia di Cutolo, zia Giginella, una contadina." Anche se si trattava di flashback muti, il mio primo film mi regalò un bellissimo primo piano. All'inizio del film c’è Maria Carta, che interpreta la madre di Cutolo, e io, sui campi, mi giro e... faccio pipì sui campi. Non fu una scena molto simpatica per me, ma fu comunque una bella esperienza. In seguito, incontrai di nuovo Tornatore e pensavo che non mi riconoscesse. Invece fu lui a dirmi: "Ma ti ricordi di me?" Risposi: "Ma come, tu sei un premio Oscar, non dovrei ricordarmi di te?" E lui replicò: "Noi abbiamo lavorato insieme in Il camorrista." Gli dissi: "Certo che mi ricordo!" Per me fu un'esperienza particolare, perché era la prima volta che mi trovavo su un set cinematografico alle 6 del mattino. Costruirono un carrello immenso per girare la scena sui campi. Era un mondo fatato, che mi apparteneva solo in parte, dato che fino ad allora avevo fatto solo teatro. Il cinema era una novità assoluta, un’esperienza nuova, divertentissima e anche faticosa».

                                                       
                                                       Dal film Il camorrista (1986) co-scritto e diretto da Giuseppe Tornatore

Due furono le commedie fatte con Pazzaglia, Partenopeo in esilio. Varietà degli anni Trenta e Quaranta (1986) e Il brodo primordiale (1989), entrambe trasposizioni teatrali dei suoi romanzi omonimi…
«Riccardo Pazzaglia, insieme ad Arbore e De Crescenzo, credo abbia visto molte volte La Gatta Cenerentola a Piazza Mancini, quando eravamo al Teatro Tenda a Roma. Era un po' amico di tutti, anche se io non l'avevo mai conosciuto di persona. Forse era più legato alla Compagnia di Canto Popolare, non lo so, insomma, venivano spesso con Marisa Laurito e altri. Lui venne più volte a vedere lo spettacolo, ma non ci fu mai una vera frequentazione tra noi. Un giorno, mentre ero a casa, ricevo una telefonata: "Pronto, c’è la signora Morea? Sono Riccardo Pazzaglia." Io, figurati, rimasi senza parole perché lo ammiravo moltissimo, soprattutto per il suo ruolo in Quelli della Notte… Inoltre, lo vedevo spesso in Me ne vado a fare il Guru con Simona Marchini e mi chiedevo come mai non collaborasse con una napoletana. Mi sarebbe piaciuto molto farlo. Insomma, mi chiama e dice: "Signora, so che lei è una bravissima attrice. Ho scritto un romanzo intitolato Partenopeo in esilio, in cui ci sono 12 personaggi che si trovano sott'acqua e vorrebbero risalire a galla. Le andrebbe di farli risalire lei?" Fu un'esperienza davvero divertente. Andai al suo albergo e lui mi mostrò il copione. Era incredibile, sembravo Fregoli: uscivo da un personaggio ed entravo in un altro, cambiandomi in quinta in soli pochi minuti. È stato veramente molto divertente e da lì nacque una grande amicizia tra me e lui. Pazzaglia diceva sempre: "Tu sei la gioia degli autori", perché non modificavo nulla del suo testo, non aggiungevo né toglievo niente, e recitavo esattamente com’era scritto. In seguito, scrisse un pezzo per me, molto bello, intitolato Pane e Pomodoro, in cui parlo delle donne grasse di Napoli che vanno a nuotare nel Golfo di Napoli e, quando entrano in acqua, il livello del golfo si alza.
Ho recitato in due spettacoli di Riccardo Pazzaglia, Partenopeo in esilio e Il brodo primordiale, entrambi adattamenti dei suoi romanzi. Anche se erano due opere complementari, alla fine abbiamo mescolato elementi di Partenopeo in esilio con quelli di Il brodo primordiale. Abbiamo girato l'Italia per un lungo periodo, ma ciò che è rimasto di più è stata l'amicizia con lui. Ci sentivamo regolarmente, soprattutto a Natale e Pasqua, ma anche in altre occasioni, e facevamo delle chiacchierate lunghissime. Quando veniva a Napoli, mi chiamava spesso per coinvolgermi in qualche progetto, come quando mi diceva: "Senti, imparati questa canzone." Io gli chiedevo: "Ma Riccardo, quando dobbiamo esibirci?" E lui rispondeva: "È stasera". Anche quando dovevo essere pronta a partecipare a queste conferenze sulla filosofia zen, che erano sempre affascinanti. Lui prendeva una brocca d'acqua e un bicchiere piccolissimo. Disse: "La filosofia zen è questa". Versava l'acqua nel bicchiere, che inevitabilmente traboccava, e lui, con nonchalance, continuava a parlare, come a dire che bisognava fregarsene di ciò che accade intorno. Era una persona molto colta e intelligente. Quando scriveva la rubrica Specchio Ustorio su Il Mattino, era una vera delizia. Ma non solo come scrittore; come persona, era incredibilmente pignolo, anche perché era nato sotto il segno della Vergine. Ricordo che quando partecipammo a Fantastico Bis con Pippo Baudo, mi scrisse un biglietto pieno di raccomandazioni, lo riscrisse tre o quattro volte come fosse un promemoria. Nonostante tutto, gli piaceva stare nel mio camerino, che, come spesso accade per le donne, era pieno di cianfrusaglie. Diceva: "Il mio camerino è proprio spoglio, fammi stare un po' qua". Un giorno scoprì che fumavo e mi regalò un manifesto da appendere nel camerino: c'era una ceneriera piena di cenere con la scritta: Baciare te è come leccare una cerniera. E concludeva dicendomi ironicamente: Fuma, fuma, che ti fa bene. Insomma, era una persona davvero divertente. Quando la nostra collaborazione finì, sentii di aver perso un grande amico, un amico con cui avevo una complicità straordinaria, sia sulla scena che nella vita. Non posso dire altro che cose belle su di lui».

                                                     
                                                                                      Il brodo primordiale (1989) regia di Riccardo Pazzaglia

Nel 1987, sotto la regia di Manlio Santanelli, ha preso parte alla commedia Bellavita Carolina con Isa Danieli…
«Bellavita Carolina è stato uno spettacolo in cui sono stata voluta da Isa Danieli e ha segnato il mio primo incontro con la nuova drammaturgia contemporanea, grazie a Manlio Santanelli. Manlio è una persona dotata di un'ironia sconvolgente. Io interpretavo Vincenzina, una portiera che entrava alla fine del primo atto e parlava di qualcuno che stava arrivando: “Nero nero, e cu 'na coda tanta! Un coso lungo, nero”. Lo descriveva in modo tale che non si capiva cosa fosse. Poi, al secondo atto, si scopriva che si trattava di un pianoforte. Era un personaggio strano, una delle donne popolari che, insieme alla cameriera, incarnava la saggezza spicciola e la furbizia del popolo. È stata un’esperienza molto bella. Eravamo tutte donne in scena, con attrici di grande talento. C’era Virginia Da Brescia, attrice e cantante degli anni '50, amica di Isa, che aveva conosciuto frequentando l'avanspettacolo e altre forme teatrali come le sceneggiate. C’era anche Graziella Marino, che aveva lavorato con Eduardo ed era bravissima. L'unico uomo nel cast era Lello Serao, che interpretava Don Pietro, un prete. Poi c'erano Fulvia Carotenuto e Paola Fulciniti. Era davvero un gruppo di fuoco. La commedia era molto bella, con toni un po' noir, ma comunque molto affascinante. Fu il mio primo incontro con la nuova drammaturgia. Il sodalizio con Manlio Santanelli è poi continuato con Il Teatro cerca Casa, un’iniziativa che trovo meravigliosa». 
Lei, infatti, è un'attrice e sostenitrice del bellissimo progetto campano "Il Teatro Cerca Casa". Può parlarcene?
«Il Teatro Cerca Casa è un'idea di Mario Santanelli e nasce in un momento di crisi per gli attori e i teatri stessi. In un periodo in cui, per vari motivi, non riuscivamo a trovare posto nelle compagnie teatrali, quest’iniziativa ci ha offerto una nuova opportunità. Non appartenendo a nessuna “parrocchia” teatrale, essendo freelance, spesso ci trovavamo costretti a fare monologhi, che non sempre i teatri erano disposti a ospitare. Così, lui ha deciso di avviare questo progetto che trovo davvero meraviglioso. Io sono stata una delle prime a parteciparvi e sono una fedele sostenitrice. Ogni anno, infatti, prendo parte con uno spettacolo. Il Teatro cerca Casa ti dà la possibilità di recitare da sola o in piccole formazioni di due o tre persone, davanti a un pubblico che ti sceglie consapevolmente È un'esperienza bellissima perché, a differenza del teatro tradizionale, non c'è il fascino della sala spenta e della folla nascosta nel buio, sia che il pubblico sia numeroso o meno. Qui, invece, gli spettatori li hai a tre centimetri dal tuo naso, senza scenografie o con pochi elementi scenografici, senza le luci teatrali che creano atmosfera, ma con le luci di casa, o a volte al buio con qualche atmosfera particolare, sempre domestica. È affascinante anche perché il pubblico ti sceglie. Hanno a disposizione una serie di spettacoli e scelgono l'attore o la rappresentazione che più li attira in quel momento. Questo ti dà la certezza che sono lì per te e sono predisposti positivamente, quindi devi dare il meglio per confermare la loro scelta. Ma la cosa più bella è che, dopo lo spettacolo, c’è un dibattito. Gli spettatori ti fanno domande sullo spettacolo, sulla tua vita, su quello che hai fatto. È un momento di grande convivialità, perché, diciamolo, il teatro è un racconto, e dove c’è un racconto, c’è teatro. In questo contesto, anche il pubblico vive un’esperienza diversa: non possono avere il telefonino acceso come spesso accade, e devono ascoltarti attentamente. Secondo me, è un’iniziativa meravigliosa. E poi, diciamo la verità, è una cosa antica, perché questo tipo di rappresentazione esisteva già in passato, anche in Francia. Esistevano le "periodiche" in casa, una formula che funziona sempre. Da quel momento, ho iniziato a fare monologhi di Annibale Ruccello e monografie di cantanti. Con Manlio ci sentiamo spesso, e mi ha dato anche una sua commedia che spero di portare in scena presto».
Ha recitato accanto a Luca De Filippo in Le voci di dentro e Filumena Marturano. Com'è stato lavorare con un erede della tradizione teatrale napoletana come De Filippo?
«Avevo già partecipato a due commedie di Eduardo, Napoli milionaria e Sabato, domenica e lunedì, entrambe dirette da Peppino Patroni Griffi. Tuttavia, Peppino, essendo un autore e romanziere, aveva riletto Eduardo in modo personale, pur mantenendo un approccio filologico. Ad esempio, in Napoli milionaria, il figlio non tornava a casa, contrariamente a quanto avviene nella versione originale di Eduardo, perché per Peppino "la nottata" non era passata, e, quindi, il figlio è un mariuolo e va in galera. Quest’interpretazione non fu particolarmente gradita a Luca De Filippo. Dopo qualche tempo, rincontrai Francesco Rosi, che avevo conosciuto negli anni belli, quando De Simone mi portava al Circolo della Stampa, dove si tenevano incontri letterari. Lo rividi, se non ricordo male, al Teatro Eliseo di Roma, e mi disse: "Sai, sto per dirigere due opere di Eduardo. Ti piacerebbe partecipare?" Risposi: "Certo, mi farebbe piacere". Mi chiamarono quindi per fare un provino, sia con Luca sia con Francesco Rosi, e fui subito scelta per interpretare Donna Rosa in Le Voci di Dentro. Successivamente, interpretai Rosalia Solimene in Filumena Marturano accanto a Lina Sastri. 
L'incontro con Luca è stato straordinario. A parte il fatto che eravamo tutte innamorate di lui, che era bellissimo, quella era davvero la compagnia teatrale per eccellenza. Luca aveva respirato l'aria del teatro insieme a suo padre e aveva assorbito lo stesso rigore che Eduardo gli aveva trasmesso. Era una compagnia molto divertente, ma anche molto seria. Facevamo prove costanti, e Luca spesso mi rimetteva a posto le cose. Sono stati anni meravigliosi, caratterizzati da tournee lunghissime e da grandi successi, con teatri sempre strapieni. Quando Luca è morto, ci siamo tutti chiesti cosa ne sarebbe stato del teatro e delle compagnie. E infatti, purtroppo, compagnie teatrali stabili e longeve come quella di Luca ce ne sono pochissime oggi. Forse solo Salemme mantiene una certa continuità, ma la maggior parte delle compagnie mette in scena due o tre spettacoli diversi per poter coprire più mesi di attività. Con Luca, invece, c’era sempre la sicurezza di un grande successo, grazie alla presenza di due nomi importanti come Eduardo e Francesco Rosi, oltre a quella di Luca stesso. Luca in scena era divertentissimo, ci faceva ridere, ma lui non rideva mai. Era sempre di un rigore stilistico impeccabile. Lavorare con lui è stato un vero piacere, un'esperienza bellissima, entrai in compagnia con molta emozione ed ho sempre avuto quel timore reverenziale».
E qualcosa su 'Na Santarella, regia di Mario Scarpetta nel 1991?
«'Na Santarella e Miseria e Nobiltà sono nati dalla collaborazione con Mario Scarpetta. Ci siamo conosciuti durante lo spettacolo La Festa di Piedigrotta, dove lui interpretava un “bazzariota”, e da lì è nata un’amicizia che ci ha portato a lavorare insieme. Avevo avuto dei bei ruoli, in 'Na Santarella interpretavo Donna Rachele, la Madre Superiora del Convento delle Rondinelle, mentre in Miseria e Nobiltà vestivo i panni di Concetta, la moglie di Pasquale. Sono stati anni divertenti e formativi, durante i quali ho imparato a usare tecniche teatrali specifiche come il “parlare fuori dalla commedia”, quei famosi "a parte" che gli attori di Scarpetta inserivano nelle rappresentazioni. Mario era bravissimo in questo, e recitare in commedie comiche come quest’è stato davvero un piacere ed era un’altra faccia del teatro abbastanza stimolate».

                                                       
                                                                           'Na Santarella (1991) regia di Mario Scarpetta

Nel 1994 ha partecipato allo spettacolo Novecento Napoletano, un omaggio alla cultura musicale e teatrale di Napoli. Quanto è legata alla musica e come si inserisce nella sua carriera?
«Ho partecipato a Novecento Napoletano durante una tournée in Argentina. È stata un'esperienza emozionantissima perché c'erano tantissimi emigranti che, alla fine dello spettacolo, si alzavano in piedi, sventolavano fazzoletti bianchi e chiedevano di ascoltare ancora altre canzoni. Ricordo che il maestro Tonino Esposito, una figura di spicco del Festival di Napoli, mi diceva: "Signurì, cantate, Antonella, cantate!". Anche se le canzoni erano finite, noi continuavamo a cantare qualsiasi cosa, perché il pubblico continuava ad applaudirci, a piangere e a sventolare i fazzoletti, senza volerci lasciare andare.
La canzone napoletana è stata la prima cosa che ho affrontato nella mia carriera artistica. Ho iniziato cantando canzoni napoletane con la chitarra nei locali, anche se le interpretavo sempre con un tocco personale, un po' più moderno, senza mai contaminare la tradizione, ma conferendole un ritmo più swingato. Non come Renzo Arbore, ma comunque in un modo diverso.
Sono cresciuta con una nonna che era canzonettista, quindi la musica napoletana era nel mio DNA. Mi piaceva molto osservare come le diverse cantanti napoletane affrontavano le canzoni: alcune con un filo di voce, altre con una veemenza particolare. Da ognuna di loro ho rubato qualcosa, per poi sviluppare una mia personale visione e interpretazione della canzone napoletana».
Nel 2000 ha iniziato una collaborazione durata diversi anni con Fortunato Calvino. Come descriverebbe il vostro rapporto artistico? Qual è il segreto di una collaborazione così longeva e fruttuosa?
«Il mio sodalizio con Calvino è stato lungo e ricco di soddisfazioni. Ho iniziato a lavorare con lui a 40 anni, affrontando per la prima volta nella mia carriera un monologo, Anna Cappelli di Annibale Ruccello. È stata un'esperienza folgorante per me. Poi, Calvino ha scritto per me il ruolo di una usuraia cattivissima in Cravattari, un personaggio che mi ha dato moltissimo perché mi ha permesso di esprimere aspetti di me che non emergono nella vita quotidiana. Interpretare un personaggio così spietato è stato stimolante, quasi liberatorio, perché mi chiedevo: "Ma com'è possibile che io sia così cattiva e spietata?". Mi piaceva immergermi in quella cattiveria, esplorarla e farla emergere in tutta la sua intensità.
Ho fatto molte altre cose con lui, come Le figlie di King Kong di Teresa Walser, all'Istituto Goethe di Napoli. Calvino ha anche scritto una ipotetica continuazione di Napoli milionaria, in cui Rituccia, la bambina che si salva con la medicina, deve comunque "passare la nottata". In questa versione, Rituccia ha una vita travagliata a causa delle bombe e delle cattiverie subite durante la guerra, che la segnano profondamente. In quella storia interpretavo ancora una volta una comare cattivissima; non so perché, ma sembravo ispirargli sempre personaggi di grande cattiveria. Poi altre commedie, come Gertrude, un altro suo personaggio, una zitella un po' pazza, anche questa fuori dalle righe. Il segreto della nostra collaborazione longeva e fruttuosa sta probabilmente nella fiducia reciproca e nella capacità di Calvino di scrivere personaggi che mi permettono di esplorare e mettere in scena aspetti inaspettati della mia personalità».

                                    
                                                     Cravattari (2017) di Fortunato Calvino - Foto di Cristian Guetta

Il suo disco Anema d' 'o munno del 2009 rappresenta una fusione tra la sua passione per la musica e il teatro. Com’è nata l’idea di questo progetto? Che importanza ha la musica nella sua vita artistica? Quali sono le sue influenze musicali?
«La musica è stata la mia prima passione, la cosa che ho amato di più fin dall'inizio. Ho sempre cantato con la chitarra nei locali napoletani, interpretando canzoni napoletane modernizzate e brani di musica popolare e folk. L'incontro con Roberto De Simone ha poi consolidato questa mia passione, anche se sono rimasta etichettata come cantante folk e popolare. Ogni volta che mi cimento con il soul o il pop, le persone si sorprendono e mi dicono: "Ma davvero sai cantare anche questo?". La verità è che, con il tempo e l’esperienza, ho affinato la mia capacità di esplorare nuovi generi musicali.
L'idea per Anema d' 'o munno è nata durante un periodo in cui collaboravo molto con Carlo Faiello, cantando le sue canzoni e partecipando a eventi come la Notte della Tammorra. L'editore Rogiosi, di Espresso Napoletano, mi propose di fare un disco da inserire nella rivista. Così è nato quest’album, che includeva brani noti di Pino Daniele, James Senese, e pezzi scritti da Faiello. C'era una forte contaminazione tra vari stili, e il disco ebbe un buon riscontro. Successivamente, ho lavorato a un altro progetto importante con Roberto De Simone, Era de maggio: Anamnesi Giacomiana, una vera e propria antologia in cui ho cantato in modo diverso rispetto alla tradizione napoletana classica».

                                                                       
Nel 2010 ha recitato nella terza stagione della fiction Capri. Come si trova a passare dal teatro alla televisione e viceversa? Quali sono le principali differenze nel modo di recitare?
«Capri è stata una piacevolissima incursione nel mondo della televisione. Avevo già fatto qualche cosa in televisione, ma non avevo mai provato l'esperienza di una fiction. È stato molto divertente, interpretavo Assunta la madre di Gina (Laura Barriales). Mi chiamarono all'improvviso mentre ero in vacanza, e mi trovai a recitare nell'edizione in cui Reginella era morta e c'era Lucia Bosè. Recitare per la televisione è un'esperienza completamente diversa rispetto al teatro. In televisione devi essere naturale, ma non in senso naturalistico. In teatro, invece, devi impostare la voce per arrivare fino all'ultima fila del pubblico; hai un approccio diverso, più ampio e meno intimo, verso chi ti guarda. Di fronte alla macchina da presa, invece, puoi ripetere una scena 3-4 volte per trovare la giusta interpretazione e per soddisfare le richieste del regista. È un altro modo di recitare, che richiede una diversa consapevolezza del proprio strumento espressivo».
Nel 2018 ha interpretato Mrs. Brill in Mary Poppins il Musical. Come si è preparata per questo ruolo? Qual è stata la sfida più grande nel partecipare a un musical di questo calibro?
«Mary Poppins è stata una vera e propria immersione nella giovinezza, perché intorno a me c'erano tutti questi giovani performer, bravissimi cantanti, attori, ballerini. Il mondo del musical è estremamente faticoso, si lavora dalla mattina alla sera, soprattutto per i performer che devono ballare e mantenere sempre alta l'energia in coreografie complesse. Io, anche se non ballavo, ero comunque coinvolta in questo vortice di prove continue. È stata un'esperienza molto bella, come un sorso d'aria fresca. Mary Poppins era un musical divertentissimo, realizzato con la tipica qualità Disney. Cameron Mackintosh, uno dei giganti del teatro musicale, papà di successi come Cats e Il Fantasma dell'Opera, supervisionava tutto, assicurandosi che ogni dettaglio fosse eseguito con precisione e perfezione, esattamente com’era stato stabilito dalla Disney. Le canzoni e le coreografie dovevano essere rigorosamente rispettate, senza alcuna variazione. Il musical è avvolgente, con una musica fantastica che ti trasporta in un altro mondo, il mondo di Mary Poppins è quello della nostra infanzia. Noi siamo cresciuti con Julie Andrews nel ruolo di Mary Poppins, quindi è stato come rivivere un mondo di magia. I trucchi scenici erano straordinari, ed io mi sono divertita tantissimo. È stato un momento di grandissima felicità artistica e umana, che purtroppo si è interrotto bruscamente con l'arrivo della pandemia».


Antonella Morea e Roberto Tarsi durante una pausa dello spettacolo Mary Poppins- Il Musical

Con Puteca Celidònia ha fatto un’esperienza particolare, partecipando a una residenza artistica per le prove. Può parlarci di quest’esperienza e spiegare cos’è una residenza artistica?
«Puteca Celidònia è nel mio cuore. Sono un gruppo di giovani talenti che ho conosciuto durante un workshop su Gatta Cenerentola alla scuola del Teatro Mercadante, diretta da Luca De Filippo. Inizialmente, erano molti, ma poi si sono uniti in una decina e hanno creato questa splendida realtà nel quartiere Sanità, dove gestiscono due beni confiscati alla camorra. Lì collaborano attivamente con il quartiere, coinvolgendo donne e bambini nel teatro, nella creazione di costumi e scenografie, e organizzano eventi meravigliosi come 'A voce d''o vico, la festa del vicolo, a cui ho partecipato anch'io.
Dopo quel workshop, evidentemente, ho lasciato un buon ricordo, tanto che mi hanno chiamata per partecipare a un loro progetto, ispirato a Winnie di Giorni felici di Beckett, ma che si evolve in una riflessione sulle donne della Sanità, e su come esse siano, in un certo senso, rinchiuse nella loro realtà, proprio come Winnie.
Lì, abbiamo davvero studiato a fondo il testo. Le residenze artistiche sono state una scoperta e anche una sfida per me. Io, che appartengo a una generazione abituata a fare un mese di prove per poi andare in scena e magari riprendere la parte solo ogni tanto, mi sono trovata di fronte a un metodo diverso. In una residenza artistica, sei immerso completamente nel lavoro: studi minuziosamente le luci, il testo, la scenografia, tutto è pensato e ragionato nei minimi dettagli. A volte può sembrare estenuante, al punto da chiederti: "Ma quando debuttiamo?" Invece no, si continua a lavorare, e alla fine la residenza ti permette di approfondire e perfezionare il lavoro, fino a presentarlo al pubblico selezionato.
Il pubblico che assiste alle anteprime è scelto dalla residenza stessa, e può vedere dieci minuti di spettacolo, a volte venti, altre volte trenta. Credo di averne fatte tante, finché siamo arrivati alla rassegna Forever Young de La Corte Ospitale a Rubiera (RE), che è stata fondamentale per lo spettacolo. Lì ci siamo confrontati con giornalisti, ricevendo consigli, ascoltati o meno, e siamo arrivati all'ultima residenza al Teatro Quarticciolo, dove abbiamo definito il testo e la recitazione in modo definitivo.
Dopo quest’ultima residenza, siamo andati al Festival di Castrovillari, di cui ignoravo l'esistenza, ma che si è rivelato una sorta di piccola Spoleto. Era un ambiente incredibile, con il gotha dei distributori, dei teatranti e dei critici del teatro. Ho conosciuto un sacco di persone, molti giornalisti di cui non conoscevo l'esistenza, e quella serata magica, con scrosci di applausi e ovazioni, mi ha fatto capire che il testo funzionava davvero. Fino a quel momento, con anteprime di dieci, venti, trenta minuti, non ero del tutto sicura, ma lì ho capito che avevamo qualcosa di speciale tra le mani. Infatti, coloro che mi hanno visto a Castrovillari mi hanno nominata per il premio Ubu. Anche se non l’ho vinto, la nomination stessa è una grandissima soddisfazione, perché è un riconoscimento dalla critica e dal pubblico. L’Ubu è una consacrazione, e anche solo essere nominati significa molto. Ora posso anche votare i giovani che partecipano al premio e aspirare ancora a esserci. Chissà, magari un giorno o l’altro riuscirò a vincerlo.»
Ha partecipato al film di Lina Sastri La Casa di Ninetta. Ci racconta qualche aneddoto sul film e un ricordo della grande Angela Pagano?
«La Casa di Ninetta è stata un'esperienza breve, ma intensa. Abbiamo girato per sei giorni, proprio nella casa di Ninetta, ai Quartieri Spagnoli, insieme ad Angela Pagano, Antonella Stefanucci, Franca Abategiovanni e naturalmente Lina Sastri. Il ruolo che Lina mi ha affidato era tenero, bello, ricco di grande umanità: interpretavo Carmela, la badante della signora Anna. Angela Pagano era straordinaria. Era una grandissima attrice, purtroppo poco riconosciuta per il suo talento. Nonostante non abbia ricevuto molti premi o riconoscimenti, era una delle più grandi attrici napoletane, e direi anche italiane, perché ha lavorato con diversi registi, non solo a Napoli. Era un'attrice eccezionale, intelligente, capace di restituire il personaggio con una profondità rara, riflettendo attentamente su ogni dettaglio. Era un'attrice pensante, per fortuna. Ricordo una scena del film in cui dovevo sollevarla dalla sedia a rotelle e metterla a letto, poiché interpretava una donna malata di Alzheimer. Angela era così convincente, così vera, che durante quella scena mi sono commossa fino alle lacrime. Sembrava davvero una donna persa nella malattia, alla ricerca di aiuto. In quel momento non vedevo più Angela Pagano, ma una donna fragile e smarrita. È stata un'esperienza profondamente commovente. Angela è una persona che non dimenticherò mai, un ricordo indelebile, sia come persona sia come attrice, davvero».

                                          

                                                        Presentazione del film La Casa di Ninetta a Napoli - Foto di Francesco D'Acunzo