"Il primo giorno della mia vita" il nuovo romanzo di Paolo Genovese - Intervista
- di Nicola GarofanoIl primo giorno della mia vita è il nuovo sorprendente romanzo scritto dal regista Paolo Genovese per l’Einaudi.
È la storia originale e molto emozionante di quattro persone, un uomo, due donne e un ragazzino distrutte dai loro malesseri quotidiani, con i loro dubbi e problemi esistenziali e vogliono farla finita, ma, in uno strano e magico negozietto di Chinatown, incontrano un personaggio misterioso che gli regala sette giorni per scoprire come sarebbe il mondo senza di loro e innamorarsi ancora della vita.
Abbiamo intervistato il regista Paolo Genovese durante la sua presentazione del libro all’Ischia Global Fest.
Come sono nate le varie storie che sono raccontate nel libro?
«Le storie sono solo rappresentative. È un romanzo sulla forza di ricominciare dopo che si è caduti. Sono storie di persone che cadono e tra tutte le cadute, le disperazioni, il mal di vivere possibili, ne ho scelti quattro che mi toccano più da vicino. Ne avrei potuti scegliere assolutamente altri quattro e altri quattro ancora, ma bisogna sempre fare una cernita. In realtà, il vero toccare il fondo e il motivo per cui lo tocchi è relativo, il senso del film è rialzarsi e ricominciare, in questo caso sono una donna che ha perso un figlio, un uomo depresso, una campionessa olimpionica finita su una carrozzina a rotelle e un bambino bullizzato, ma potrebbero essere stati altri modi di toccare il fondo, il senso della storia non sarebbe cambiato. Non è sul mal di vivere, ma è sulla forza di ricominciare a prescindere da quello che ti capita. Ovviamente ho scelto quattro storie molto faticose, ce ne sarebbero state altrettante faticose, ad esempio, quando si scopre di soffrire di una malattia mortale, è un modo di cadere altrettanto forte, non c'è nel libro ma ci sarebbe potuto essere. È curioso perché nel libro si parte da un suicidio, dalla morte, ma parla della vita è un inno alla bellezza della vita.»
Il sindaco di Lacco Ameno Giacomo Pascale, Paolo Genovese e Pascal Vicedomini, fondatore e produttore dell’Ischia Global Fest.
Anche se c'è tristezza nel libro, ha comunque dei messaggi positivi…
«É una tristezza che è ribaltata. Secondo me le storie più gioiose non sono le storie felici, perché esse sono sempre un po' artefatte, invece, la vera felicità è quando ribalti una situazione triste, quando pensi di perdere una cosa e invece la ritrovi. Quando pensi che tutto sia finito, invece, tutto ricomincia, quella è la vera felicità. Quando c’è un on/off, un bianco e nero, e questa storia è un po’ così.»
È mai stato vittima di bullismo?
« No. Da ragazzo c'erano dei bulli nella mia scuola che se la prendevano un po' con tutti, anche con me, ma fortunatamente avevo le spalle un po' più robuste di alcuni bambini che erano le vittime. Il bullismo l'ho visto, mi ha sfiorato e il motivo della scelta di inserirlo nel libro è perché da due anni sono ambasciatore dell'Associazione Nazionale Anti Bullismo, Bulli Stop e ho visto più da vicino questo fenomeno di tanti ragazzini che urlano aiuto e spesso non sono ascoltati perché non capiti.»
Ci sarà la trasposizione cinematografica del libro. Come mai vuole girarlo in America?
«É una storia che ha un pizzico di magia. Nella storia c'è un piccolo negozietto vicino a Chinatown, dove c'è un uomo misterioso che regala una settimana della propria vita per salvare la vita degli altri e ambientata lì ci credi, se lo fai in un altro posto, invece, no. New York è un posto dove tutto può succedere ed ha un pizzico di magia sia per il vissuto che abbiamo dei film, sia per la propria evoluzione negli anni, quindi mi piacerebbe farlo lì, anche perché la storia è stata pensata e scritta lì.»
È un negozietto che compare e scompare. È visto solo da chi ha veramente bisogno?
«É un posto che c'è sempre ed esiste.»
Quali sono i parametri che lei usa per scegliere le storie di un film?
«Nessuno, non è generalizzabile. È difficile sempre anche ricostruire, perché si è scelta una storia anziché un'altra. Come quando esci qui, magari fai una passeggiata e ti ritrovi a Casamicciola, ma non sai bene perché. Esci, vai a destra poi ti fermi e prendi un gelato e a un certo punto arrivi a qualche parte e non sai mai bene il perché ci sei, forse perché hai seguito probabilmente un flusso. Io non so perché ho fatto questa storia, dovrei veramente pensare e farei pure fatica a capire com’è nata, farei fatica a capire qualunque storia com’è nata.»
Lei ha girato diversi generi. Qual è stato il più difficoltoso?
«Io credo che la commedia italiana, il dramedy, come lo chiamano gli americani, è il genere più difficoltoso che esista. È un genere che contiene altri generi, in quel tipo di commedia dentro c'è il dramma, il comico, ci deve essere anche la risata, c'è il sentimentale, tanta roba che è comunque una realtà artefatta, ma allo stesso tempo deve essere credibile. È un genere complesso, come quando cucini con tanti ingredienti. È più complesso del film drammatico, del thriller, dell'horror o di qualunque altro genere, perché contiene una scatola che ne contiene altre. Ad ogni modo, ogni storia ha una difficoltà intrinseca, perché narra degli elementi che devono essere ben amalgamati fra loro, a prescindere dal genere.»
Lei ha un “pacchetto” attori che usa per i suoi film. Che cosa è nato fra voi e perché sceglie quegli attori?
«L'Italia è un pacchetto attori, perché poi gli attori riconoscibili sono pochi in Italia. È vero che sembrano siano sempre gli stessi, degli attori di Immaturi un film di grande successo di otto anni fa, non ce n'è uno che c’è in Perfetti sconosciuti, però è vero che ho degli attori con cui ho fatto più di un film. Mi dicono spesso questa cosa, in realtà, sono meno di quanto si possa pensare, con Marco Giallini ho fatto quattro film, con Valerio Mastandrea ne ho fatti tre, sono i miei due attori preferiti, anche con Anna Foglietta ne ho fatti due. Ci sono degli attori che gravitano, ci vediamo e ci sentiamo e c'è una sorta di comunità con cui cerchiamo di confrontarci. Se penso a The Place con tanti attori era la prima volta che ci lavoravo, come Vinicio Marchioni, Rocco Papaleo, Alba Rohrwacher, Kasia Smutniak…
E Giulia Lazzarini perché l’ha scelta?
«Io la trovo un'attrice straordinaria. Mi serviva una persona anziana e l'avevo vista in Mia Madre di Nanni Moretti e credo che lei abbia un'umanità, una forza di emozionare solo con lo sguardo, con quella voce, con quella fragilità. Mi serviva esattamente quella tipologia umana e poi è brava, particolarmente brava.»