Chi era Caravaggio pittore?
- di Laura Allori«Fecer crudel congiura / Michele a’ danni tuoi Morte e Natura; / Questa restar temea / Da la tua mano in ogni imagin vinta, / Ch’era da te creata, e non dipinta; / Quella di sdegno ardea, / Perché con larga usura, / Quante la falce sua genti struggea, / Tante il pennello tuo ne rifacea»
Con queste parole Giovanni Battista Marino celebrava la morte dell’amico Michelangelo Merisi. È la Natura che ha voluto la morte di Caravaggio. La natura invidiosa perché lui, con il suo pennello creava degli uomini veri, reali. Con la Natura ha congiurato la Morte, perché nelle sue opere, le creature di cui lui è stato Creatore, sono immuni alla morte, immortali.
La sua opera ha diviso un’epoca, prima e dopo Caravaggio. Nel suo tempo c’era un tardo Manierismo ombra di sé stesso, freddo e inconsistente. Se il primo, quello diretto o quasi, delle botteghe dei grandi, era a modo suo un’arte da sentire e interpretare, quello tardo non era che la mera copia di copia, classicista e non classica. Manieristica e non di maniera. Caravaggio ritorna indietro, vede il Rinascimento, lo apprezza, lo ammira e lo fa suo reinterpretandolo secondo il suo stile e quella che lui definirà come la sua epoca.
Oggi, Caravaggio sarebbe una star. Uno di quelli da seguire e imitare, l’idolo delle folle, perfetto per la nostra epoca a tal punto che, purtroppo, al giorno d’oggi “va di moda” anche troppo. Ogni giorno escono fuori scoop, notizie (false) con rivelazioni e scoperte. Lui, Leonardo e Michelangelo, in parte seguiti da Raffaello, Van Gogh e Picasso, dominano la scena del gossip dell’arte, spesso usati come pretesto, come nome d’effetto su cui fondare una vanagloria e cercare successo.
Caravaggio non era così, e come lui non erano gli altri che oggi sono diventati parte di un’industria che, in vita, avrebbero sicuramente rigettato. In barba a tanti sceneggiatori, scrittori (o scribacchini) che hanno trasformato in personaggi assurdi delle pietre miliari della storia e della storia dell’arte.
Chi era il pittore Caravaggio?
Michelangelo portava il nome dell’arcangelo Michele perché nato il giorno dedicato al santo, il 29 settembre 1571, a Milano, non a Caravaggio, lì abitava la sua famiglia ma lui nacque in città. Morì prima di compiere 40 anni sulla spiaggia a Porto Ercole, mentre fuggiva e sperava di ritornare alla sua amata Roma.
È stato come prima di lui Giotto e Masaccio un rifondatore della pittura. Al centro pittorico ha posto il corpo umano con uno sguardo nuovo e anticonformista. Come Michelangelo liberava i corpi dal marmo, Caravaggio liberava le anime dai corpi, dei corpi veri, senza filtri, senza veli. Prima di Courbet, prima di Van Gogh e Picasso, molto prima di tutte le avanguardie del Novecento che lui ha inevitabilmente influenzato, di cui è stato maestro.
I suoi contemporanei sublimavano, filtravano (nella concezione di filtro che abbiamo oggi), idealizzavano con ispirazione ai classici e ai maestri rinascimentali, Caravaggio dipinge i corpi con le loro imperfezioni, lacerazioni e ferite.
Un realismo imbarazzante per i contemporanei, sconvolgente e meraviglioso per chi l’ha assunto ad esempio. La pittura di Caravaggio è una seconda natura, in cui i corpi svelano l’anima posseduta da quei corpi.
La sua ispirazione era stata Santa Margherita di Annibale Carracci conservata nella chiesa di Santa Caterina Dei Funari. La santa è vestita con abiti contemporanei (Carracci era più vecchio di dieci anni di Caravaggio), è inserita nella natura del luogo, la campagna romana, richiamando Leonardo e Giorgione (il primo si nota anche dalla mano che indica l’alto); il dipinto critica il manierismo troppo di maniera, Carracci, dirà Caravaggio ha la buona maniera naturale. La pittura del tardo manierismo viaggiava in confort zone non rischiava più, era un’accozzaglia pulita e fredda di cose già viste e sicure.
Carracci, ma ancor di più Caravaggio aveva capito e rivisitato le argomentazioni di Leonardo e Giorgione inserendole nel contesto suo contemporaneo, era un classico ma non classicista, con qualcosa in più, la musicalità dei colori, la forza della natura e della luce, il movimento, l’espressione, l’anima.
Il libro di Sara Magister (leggi articolo) parla del dipinto della Cappella Cantarelli in San Luigi dei Francesi, prima apparizione pubblica di Caravaggio che si cimenta con una commissione ardua. La “Vocazione di San Matteo” ha tutto il bello che poteva prendere dai maestri del Rinascimento: la mano di Gesù evoca quella di Adamo della Sistina, è un Gesù nuovo Adamo, soprattutto, Gesù uomo che irrompe con la sua divinità, quindi, quello che chiama Matteo il pubblicano. L’impianto di Giorgione, il colore di Tiziano, ma tutta l’intensità di Caravaggio, con la luce di taglio, la taverna di tutte le sere, gli abiti contemporanei, la realtà così vera da fare paura, così forte da sentire la vocazione al pari dell’Evangelista. È un dipinto da una portata rivoluzionaria, Zuccari lo capì capito ma ne ebbe paura e lo criticò. Citazioni non più i classicismi del tardo manierismo, Caravaggio è un naturalista con modelli dal vero presi per strada, alla taverna, tra la gente.
Gian Pietro Bellori, storico dell’arte, sosteneva che Caravaggio avesse visto Venezia e le opere di Giorgione e ne fosse stato affascinato. Sono d’accordo, anche perché nella mia fantasia la speranza che abbia fatto un viaggio a Venezia c’è. Altrimenti non spiegherei il colore, la luce, l’armonia delle forme colpite dalla luce.
Un’altra delle argomentazioni di moda su Caravaggio è relativa alla sua omosessualità, come se importasse a giustificare la sua vita o la sua opera. Egli amava molto, senza dubbio, amava gli uomini e ha avuto anche amanti femmine, ma il suo amore è stato talmente alto, preso dalla passione per l’arte che anche nelle relazioni portava questo fuoco, questa sua meraviglia. Credo non sia da attribuire ad un’identità di gender, piuttosto all’arte, all’essenza dell’amore, alla bellezza che lui trovava nei suoi giovani amanti con lo stesso ardore che metteva nei suoi dipinti. Senza filtri, se non quelli che una censura esasperante metteva all’epoca e, ancora oggi perdura anche tra i cosiddetti buonisti.
Nel viaggio breve di questo articolo, vorrei soffermarmi su due opere, entrambe di un Caravaggio latitante: “Le sette opere di Misericordia” (1607) realizzata a Napoli e conservata nella chiesa del Pio Monte della Misericordia; e il “Martirio di San Giovanni Battista” (1608) della Co – Cattedrale de La Valletta a Malta.
Nell’opera di Napoli, l’azione è spezzata in più raggruppamenti e il raccordo è dato dal fondale con i piani illuminati scena per scena che articolano lo spazio. L’opera è direttamente ispirata al vangelo di Matteo, capitolo 35.
Sulla destra: “Seppellire i morti” con il trasporto di un cadavere di cui si vedono solo i piedi; “Visitare i carcerati” che è fusa con “Dare dal mangiare agli affamati”, quest’ultima ispirata all’episodio classico di Cimone affamato in carcere e allattato dalla figlia Pero, che aveva partorito da poco.
Sulla sinistra: “Vestire gli ignudi” con San Martino che dona il mantello, lo stesso santo cura lo storpio per l’opera “Curare gli infermi”; Sansone che beve nel deserto è l’episodio biblico che ha ispirato “Dar da bere agli assetati”, sull’estrema sinistra si vede un uomo (Sansone) che beve da una mascella d’asino l’acqua che il Signore ha fatto sgorgare per miracolo; San Giacomo Maggiore, il pellegrino per eccellenza, chiude la serie con l’opera “Alloggiare i pellegrini” riconoscibile dalla conchiglia del viandante.
Roberto Longhi, il grandioso storico dell’arte, riassunse con la sua consueta felicità letteraria il carattere coltissimo e popolare dell’opera, sembra infatti che Caravaggio abbia preso spunto da quello che accadeva poco più in là dalla chiesa in cui si trova il quadro. Una scena che sembra presa in diretta dalla realtà pulsante di ogni giorno: «È curioso che vi siano almeno tre citazioni remotissime come Sansone, Cimone e San Martino. La camera scura che è trovata all’imbrunire in un quadrivio napoletano, sotto, il volo degli angeli che fanno la ‘voltarella’ all’altezza dei primi piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra cui ora s’affaccia la nostra ‘donna col bambino’: belli entrambi come un Raffaello ma ‘senza seggiola’ perché ripresi dalla nuda di Forcella o di Pizzofalcone»
Michelangelo Merisi andò a Malta e, nell’isola dove tutti vanno per ricominciare, per ritrovarsi, cerca gloria e successo che trova, entrando pure nei Cavalieri di Malta, ritraendo il Gran Maestro e donando al piccolo arcipelago il più grande dei suoi dipinti in tema di dimensioni e l’unico firmato. Una firma che oggi si definirebbe “creepy” perché fatta con il sangue del Battista, d’altra parte da Roma pendeva una condanna a morte per decapitazione anche su di lui e l’argomento lo ossessionava molto … Caravaggio si firma “Fra Michel Angelo” perché per entrare nei Cavalieri di San Giovanni ha preso i voti (i Giovanniti erano anche un ordine monastico con regola agostiniana).
La visione di quest'opera lascia in un silenzio attonito, come davanti a qualcosa che al tempo stesso ci coinvolge e ci trascende; ma non si può puoi leggere la firma senza provare un brivido, perché quella firma è ricavata nel color rosso, nella pozza di sangue che sgorga dal tronco del Santo decollato, con un'efficacia teatrale che immediatamente richiama l'esistenza del pittore il peso delle "bando capitale" da cui si sentiva perseguitato. La luce, come trasalente, evoca l'ultimo palpito di vita del corpo del precursore di Cristo che è caduto prono, con le mani legate dietro la schiena. L'azione è raccolta al suo culmine. in questo quadro, l'evoluzione della politica caravaggesca sta aggiungendo agli ultimi snodi: il Merisi ha ormai abbandonato del tutto i colori vividi e i particolari scintillanti della giovinezza, salvo nel mantello rosso sangue del Battista, caduto a terra. Ora, l'attenzione del pittore è concentrata sull'uso dello spazio e sul dipanarsi lento, inesorabile, dell'azione: nella grande tela maltese tutti protagonisti sono raggruppati nella parte sinistra, mentre l'intera metà di destra è occupata dal cieco muro di una prigione, che dà all’episodio la raggelante impressione di una spietata esecuzione, compiuta alle prime luci dell'alba, come del resto narrano anche i Vangeli. I carcerati che assistono dalla finestra rappresentano il genere umano. Un aspetto veramente terribile, è sicuramente ricavato dall'osservazione diretta di qualche supplizio capitale, è costituito dal gesto del carnefice. La decapitazione non è ancora riuscita perfettamente, il boia si appresta a completare l'opera: tiene per i capelli la testa sanguinante del Battista, intanto, sta sguainando il corto pugnale, chiamato con una macabra ironia ‘misericordia’, e con questo vibrare il colpo di grazia. La giovane donna, Salomè, porge impaziente e terrorizzata il vassoio in cui sarà collocata la testa; mentre la donna anziana è l’unica ad avere un moto d'orrore e di pietà. La corda che pende abbandonata dall'anello murato, sul lato destro, lascia intuire quanto può essere avvenuto appena prima, quando Santo è stato slegato da quell'angolo è portato in avanti. Il supplizio è ambientato nel cortile della prigione, come raccomandava Federico Borromeo nel "Trattato De Pittura Sacra": gli artisti dovevano ritrarre ‘il tetro e orrido carcere’ rappresentando il martirio di San Giovanni. Il rapporto tra spazio e figure è modificato rispetto ai dipinti dei precedenti anni ampliando il vuoto, immerso in una muta penombra, che drammatizza ulteriormente. Come nell'opera napoletana appena trattata, gli scuri, le ombre sono più forti e rendono la scena ancora più crudele e drammatica. Il coltello ‘misericordia’ è esibito quasi al centro del dipinto, intende omaggiare i Cavalieri di Malta che ordinarono l'opera che aveva tra i suoi compiti anche la misericordia e l'assistenza dei condannati a morte. Caravaggio aveva comunque una forte attrazione per la Misericordia, come abbiamo visto nella nell'opera napoletana, e forse era proprio quella che aveva ricevuto con il consenso che il Papa aveva dato al Gran Maestro per farlo diventare cavaliere. Oppure, semplicemente la misericordia era quella che Caravaggio avrebbe voluto ricevere per poter ritornare nella sua amata Roma.
Bibliografia essenziale: Stefano Zuffi, Caravaggio, Mondadori, Milano 2007; Maurizio Calvesi, Caravaggio, in "Art &Dossier" allegato nr aprile 1986, Giunti, Firenze 1986;AA.VV., Episodi e personaggi del Vangelo, Electa Mondadori, Milano 2002;AA. VV., La vera natura di Caravaggio, programma condotto da Tommaso Montanari su Rai 5, 2016; RRoberto Longhi, Caravaggio, Firenze, Giunti 1998; Giovan Pietro Bellori, Le vite de' Pittori, Scultori et Architetti moderni, ediz. critica di E. Borea con introduzione di G. Previtali, Firenze, 1976.